«Amleto»

Quale meravigliosa lettura è quella di uno dei capolavori di William Shakespeare, la tragedia di Amleto (nella prima edizione del 1603 titolata La Tragica Storia di Amleto, principe di Danimarca). Un’Elettra mascolina sembra esservi rappresentata, solo moderna anziché greca. Dove l’amore per il padre diviene amore per una patria ormai marcia, la quale – alla morte del suo “dolce principe” – è destinata ad essere retta dalla monarchia inglese. Infatti, nelle ultime righe della tragedia, Shakespeare (nei panni di Orazio) consegna il “voto moribondo” di Amleto a Fortebraccio.

E parla anche di un paese – la Danimarca – che rispecchia la natura umana, “schiava delle passioni”:

Queste sfrenate, rozze gozzoviglie fanno di noi la favola e il ludibrio di tutti gli stranieri: ci chiaman ubriaconi e porci, e macchiano di brutti appellativi il nostro nome; e, per la verità, c’è di che sminuir le nostre imprese, pur se condotte nel modo migliore, ledendoci nel nerbo e nel midollo della reputazione. Ed è così che uomini di pregio, a cagione di un vizio di natura, che si sono portati dalla nascita e del quale non hanno alcuna colpa, poiché natura non fa distinzione d’origine; o per l’eccessiva crescita di qualche lor personale tendenza, che abbatte quanti ostacoli e fortezze possa loro frapporre la ragione; o per certo lor abito di vita che li porta ad esasperare al massimo la forma di plausibili maniere, è così, dico, che in questi individui, segnati dell’impronta di un difetto o da natura o da maligna stella, tutte l’altre loro buone qualità, per pure e limpide che possan essere fino all’estremo della perfezione, appaiono corrotte agli occhi altrui per colpa di quell’unico difetto. Insomma, basta un briciolo di male ad infettare della sua bassezza tutta la nobile essenza d’un dubbio. (Atto I, Scena IV)

Ed ecco Amleto:

È un po’ di tempo che, non so perché, ho perso tutto il mio brioso umore, tralasciato ogni usata occupazione; e ciò grava a tal punto sul mio spirito che questa bella struttura, la terra, mi sembra un promontorio senza vita, questo stupendo baldacchino, il cielo, questa splendida volta, il firmamento, questo tetto maestoso, ingemmato di fuochi d’oro… ebbene, per me non è nient’altro che un odiato pestilenziale ammasso di vapori. Che sublime capolavoro è l’uomo! Quanto nobile nella sua ragione! Quanto infinito nelle sue risorse! Quanto espressivo nelle sue movenze, mirabile: un angelo negli atti, un dio nell’intelletto! La bellezza dell’universo mondo! La perfezione del regno animale! Eppure che cos’è agli occhi miei questo conglomerato di terriccio? L’uomo per me non ha alcuna attrattiva… (Atto II, Scena II)

Condizione che Amleto riconduce alla domanda leibniziana “perché l’essere e non il nulla?”, al dubbio esistenziale (the question). “The question” è “il problema” che – a differenza di quello matematico – non può avere soluzione.

Essere, o non essere… questo è il problema: se sia più nobil animo sopportar le fiondate e le frecciate d’una sorte oltraggiosa, o armarsi contro un mare di sciagure,e contrastandole finir con esse. Morire… addormentarsi: nulla più. E con un sonno dirsi di por fine alle doglie del cuore e ai mille mali che da natura eredita la carne. Questa è la conclusione che dovremmo augurarci a mani giunte.
Morir… dormire, e poi sognare, forse… Già, ma qui si dismaga l’intelletto: perché dentro quel sonno della morte quali sogni ci possono venire, quando ci fossimo scrollati via da questo nostro fastidioso involucro? Ecco il pensiero che deve arrestarci. Ecco il dubbio che fa così longevo il nostro vivere in tal miseria. Se no, chi s’indurrebbe a sopportare le frustate e i malanni della vita, le angherie dei tiranni, il borioso linguaggio dei superbi, le pene dell’amore disprezzato, le remore nell’applicar le leggi, l’arroganza dei pubblici poteri, gli oltraggi fatti dagli immeritevoli al merito paziente, quand’uno, di sua mano, d’un solo colpo potrebbe firmar subito alla vita la quietanza, sul filo d’un pugnale? E chi vorrebbe trascinarsi dietro questi fardelli, e gemere e sudare sotto il peso d’un’esistenza grama, se il timore di un “che” dopo la morte – quella regione oscura, inesplorata, dai cui confini non v’è viaggiatore che ritorni – non intrigasse tanto la volontà, da indurci a sopportare quei mali che già abbiamo, piuttosto che a volar, nell’aldilà, incontro ad altri mali sconosciuti? Ed è così che la nostra coscienza ci fa vili; è così che si scolora al pallido riflesso del pensiero il nativo colore del coraggio, ed alte imprese e di grande momento, a cagione di questo, si disviano e perdono anche il nome dell’azione. (Atto III, Scena I)

Amara anche la riflessione del re fratricida sull’amore:

so per esperienza, come l’amore nasca con il tempo e come, in molto casi, il tempo stesso ne modifichi il fuoco e la scintilla. Dentro la fiamma stessa dell’amore vive un certo stoppino che pian piano la smorzerà. Del resto, non v’è nulla che conservi la stessa sua bontà; ché la bontà, diventando soverchia, finisce per morire del suo eccesso. Quello che noi vogliamo dobbiamo farlo all’atto del volerlo; perché questo “vogliamo” è assai mutevole ed è soggetto a tanti cali e indugi quante son lingue, e mani, e circostanze. E allora quel “dobbiamo” è un desiderio che, simile a benevolo sospiro, ci affligge e insieme ci reca sollievo. (Atto IV, Scena VII)

Sembra di sentire Oscar Wilde quando scrive che «È sempre così nei temperamenti sottili e finemente costruiti: le loro forti passioni devono schiacciarli o ne vengono schiacciate. O uccidono la persona, o ne vengono uccise. I dolori superficiali e gli amori mediocri vivono a lungo. I grandi amori e i grandi dolori sono distrutti dalla loro stessa pienezza» (ll ritratto di Dorian Gray, Einaudi, 2000, p. 213).

Non mancano, tornando all’Amleto, delle sprezzanti battute nei confronti della Chiesa, ma sarebbe meglio dire della religione. Ecco alcuni esempi (nel primo si parla della sepoltura di Ofelia, suicida sebbene il saggio becchino argomenti a rigor di logica che è stata l’acqua a raggiungere la povera ragazza, non lei l’acqua per cui ella non è una suicida; nel secondo è Laerte che insulta il prete che insiste sull’argomento; nel terzo Amleto parla del lutto):

Secondo becchino: Non fosse stata costei nobildonna sarebbe stata seppellita fuori da cristian cimitero.
Primo becchino: Ah, l’hai capita? È una grande ingiustizia che a questo mondo le persone bene abbiano più diritto di annegarsi o d’impiccarsi che gli altri cristiani. (Atto V, Scena I)

Deponetela allora sottoterra, e dalla carne sua gentile e pura possan spuntare le viole! Io ti dico, bigotto sacerdote, che questa mia sorella sarà in cielo un angelo officiante, quanto tu te ne starai a gemere giù in basso! (Atto V, Scena I)

Non è soltanto il mantello d’inchiostro, buona madre, né il mio vestir consueto, sempre così solennemente nero, né il sospirar violento del mio petto, né il copioso fluire dei miei occhi, né l’aspetto contratto del mio volto con gli altri segni e mostre del dolore, ad esprimere il vero di me stesso. Di tutto questo si può dir che “sembra”, perché questi son tutti atteggiamenti che ciascuno potrebbe recitare. Ma quel che ho dentro va oltre la mostra… queste esteriori son tutte gualdrappe, e livree del dolore, nulla più. (Atto I, Scena II)

Leggeri possono apparire (in fondo, lo sono) i riferimenti alla cultura del tempo: l’arte retorica di Polonio è davvero genialmente rappresentata, come anche una nota “sociologica” potremmo dire con le migliori intenzioni:

Orazio, – lo vado predicando da tre anni -, il nostro tempo ha tanto progredito che l’alluce dell’ultimo bifolco s’è tanto avvicinato alle calcagna del cortigiano, da fargli il solletico. (Atto V, Scena I)

Simpatica anche l’invettiva contro gli Inglesi che Shakespeare mette in bocca al Primo becchino quando spiega il motivo per cui Amleto, ormai pazzo, sia stato mandato proprio in Inghilterra:

Nessuno se ne accorgerà: laggiù son tutti pazzi come lui. (Atto V, Scena I)

A meno che quel “come lui” indichi la saggezza nascosta… Shakespeare non manca di registrare quella che all’epoca rappresentò una trasformazione dell’arte teatrale di portata storica. Il genio inglese ne parla in questo modo degli attori tragici:

Amleto: Com’è? Son peggiorati?
Rosencrantz: Tutt’altro. Cercan di tenersi al passo; ma c’è, signore, tutta una nidiata di giovinetti, falconcelli implumi, che sanno solo recitare urlando e riscuotono applausi strepitosi. Sono loro che adesso van di moda; e coprono di tanti e tali insulti e di sberleffi i teatri comuni (così essi li chiamano), che molti che veston spada e tocco hanno paura delle lor penne d’oca, e se ne tengono bene alla larga.
Amleto: Che! Davvero fanciulli? Chi li mantiene? Come son pagati? Potranno seguitare a recitare quando, cogli anni, avran cambiato voce? E più tardi nel tempo, e diverranno attori come gli altri – com’è molto probabile che sia, e proprio non sapranno far di meglio -, non se la prenderanno malamente con gli autori dei testi ch’essi recitano, con l’accusa di averli rovinati mettendo loro in bocca tante ingiurie contro quello che poi son diventati? (Atto II, Scena II)

Resta la passione di Amleto, il suo proposito che racchiude e sovrasta ogni sua altra pretesa (di cultura, di conoscenza del mondo viaggiando e studiando, di amare, di vivere, di ridere):

Ah, siano sol di sangue i miei pensieri d’ora innanzi, o non sian pensieri degni! (Atto IV, Scena IV)

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