Omaggio a Musti

Domenico Musti, insigne storico dell’antichità, ha scritto diversi volumi sulla storia greca e romana; ma è spesso ricordato meritatamente per il suo Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana (edito da Laterza, prima edizione nel 1989, ultima edizione – ridotta – nel 2008). La peculiarità di questo volume sta nella sua pregnanza come testo critico e metodologico nei confronti della disciplina storica, nei suoi vincoli alla storia della cultura. La filosofia, inoltre, è sempre presente nei risvolti politici, sociali ed economici degli episodi storici narrati. Tenterò – in una sorta di omaggio a Musti, o al Musti – di raccogliere le parti (concentrate soprattutto nell’Introduzione e nel primo capitolo) più profonde e, per certi versi, meno storiche del prezioso volume, quelle che parlano della storia stessa.

Seguirò, per le indicazioni testuali (avviso che le marcature in grassetto sono mie), l’edizione della RCS Quotidiani (Milano, 2004), che ha pubblicato il volume all’interno della collana “Storia universale” (volume 2: “Le Grecia classica”) del Corriere della Sera. Rimanda naturalmente all’edizione Laterza del 2003. Tuttavia nutro il sospetto che le pagine non possano corrispondere. Su Sitosophia è disponibile una mia sintesi del volume allo scopo di agevolarne lo studio.

Nell’Introduzione al volume, Musti afferma quanto segue.

Narrare i fatti è anche mostrarne le connessioni; già la successione degli eventi nell’esposizione corrisponde a una scelta, rispetto a quello che si ritiene essere il senso del movimento storico. (…)
Chi scrive è convinto che, entro certi limiti, non sia possibile veramente distinguere una storia politica da una storia culturale nel senso più ampio; il linguaggio dei fatti può avere una sua implicita molteplicità di registri. I fatti che si succedono al livello del registro politico sono al fondo della storia della cultura, delle idee e delle forme mentali; essi ne parlano, se si dà loro voce, se se ne opera cioè una concettualizzazione costante. (…)
Che cosa legittima questa pretesa di lasciar parlare i fatti? Pur nella consapevolezza del limite obiettivo di ogni scelta e di ogni linguaggio, una qualche garanzia di dar vita a un linguaggio coerente e plausibile risulta dal tentativo di vedere i Greci con gli occhi dei Greci: compiere il massimo sforzo di applicare le loro categorie interpretative e forme mentali. E allora i rischi appaiono già più limitati (…).
La parabola greca rivela in ogni suo momento il nesso stretto che storicamente sussiste fra politica e cultura. (…)
L’attitudine dei Greci di fronte al possesso materiale e al denaro è quella di chi ne sente (e ne subisce anche, nel bisogno) tutto il terribile potere (…). Così, un atteggiamento culturale di fondo costituisce il raccordo (e, per lo storico moderno, la possibilità di rappresentazione della connessione) tra esperienza economica d esperienza politica in Grecia. (…)
Vista così, la grecità è la coscienza stessa del reale, come si è espressa per la prima volta in altissimo grado nella storia della cultura europea e di ascendenza europea. Storicamente, questa coscienza appare specificamente applicata alla costruzione di un tipo di società, quella cittadina, che sembra poter costituire l’orizzonte in cui impulsi e bisogni primordiali, senza rinnegarsi (perché mai così fu), si limitano, misurano, compongono. L’armonia greca è percorsa dunque da un’interna tensione. (…) Una cultura dunque in cui l’armonia appare strettamente intrecciata alla tensione; in cui gli elementi e le caratteristiche della crisi appaiono già contenuti, in embrione, nell’esperienza che la precede e che sembra dominata totalmente dalla nota dell’armonia: come, appunto, è in ogni sviluppo organico. (…) [pp. 3-8]

Tutta l’impostazione teorica e di metodo fornita da Musti trova applicazione anche nell’analisi della contemporaneità e assume caratteri ancor più propriamente filosofici non appena si addentra nello spirito greco per confrontarsi con esso e tentare di descriverlo storicamente.

Ogni civiltà (…) ha i suoi costi: lamentarne certi esiti sarà pur legittimo, ma non è quel che compete allo storico (…). Prospettare altre esigenze e soluzioni storiche può essere una forma di saggezza da far valere per il nostro mondo e la nostra civiltà, cioè in tutt’altro quadro di condizioni e relazioni. L’assoggettamento da parte di grandi potenze territoriali fu certo sentito, temuto, deprecato e anche a lungo efficacemente ostacolato dai Greci: ma era un esito storico possibile, intrinseco al loro stesso modo di concepire il rapporto fra le diverse entità politiche; e questo modo era, a sua volta, strettamente collegato con il loro sentimento dell’esistenza, in cui l’esperienza profonda e sofferta del dato naturale diventava un elemento di cultura e coscienza.
Ora, in natura ci sono più esseri, che hanno ciascuno un proprio sviluppo organico, (…) in cui però il limite è segnato dalla stessa ferrea legge del tempo, che (…) le piega a un inesorabile declino. Il pessimismo di fondo di una tale concezione naturalistica si intreccia indissolubilmente con un senso finale, paradossalmente rasserenante, di equilibrio universale, che concede a ciascuno pur sempre uno spazio temporale e di possibilità reali, entro il quale esprimersi. Chi si pone contro questa concezione, nelle sue varie e intrecciate componenti, è colpevole di hybris, il peccato capitale, per i Greci, che è la “prevaricazione”, il disprezzo o il rifiuto della misura, la prepotenza, che vuole mettere in forse le eterne regole del gioco e sfidare gli equilibri naturali, che immancabilmente si ricostituiscono. L’uso della categoria del particolarismo, dunque, non è certo sbagliato, ma permette di cogliere solo una parte della verità; se non è accompagnato dalla considerazione di quel tanto di necessità che c’è in una civiltà storica, rischia di sollecitare lo storico a una sorta di indebito moralismo politico. Meglio farà lo storico ad apprezzare, dell’esperienza greca, la varietà nell’unità culturale di fondo: che (…) in ogni caso corrisponde alle loro dichiarate aspirazioni. [pp. 9-10]

Musti, al termine del suo discorso introduttivo all’opera, delinea la figura della grecità in un modo davvero degno di attenzione.

L’esperienza multilaterale e pluralistica dei Greci [è] un patrimonio di (…) straordinarie dimensioni e immenso valore, per i Greci come per l’umanità intera: un patrimonio costituito, quasi guadagnato, a costo di sofferenze indicibili (a riprova del nesso stabilito una volta per tutte dai Greci tra sapere e soffrire). È un capitale storico, politico e culturale, di grandiose proporzioni (…).
L’immagine qui usata, della cultura e della stessa esperienza politica greca come patrimonio e tradizione, non risulta soltanto dalla sua effettiva trasmissione a società e culture distinte e affine; non è dunque solo una metafora applicatale dall’esterno; essa trae giustificazione anche dalla intrinseca capacità e propensione della cultura greca a porsi come paradigma. (…)
È con questa carica paradigmatica che la cultura greca si trasmette a quelle più recenti, fino alla nostra. (…) Sta di fatto che, nella sua varietà e intensità, ma soprattutto nel grado di coscienza che essa esprime, la cultura greca si presenta già al suo interno come un ‘inventario di archetipi’, di paradigmi, di modelli, e perciò necessariamente trasmette la nozione stessa di archetipo, di esperienza iniziale ed esemplare, alle età e alle culture più tarde; essa si pone come una specie di laboratorio storico, in cui sono state vissute fino in fondo molte attitudini ed esperienze fondamentali dell’uomo. [pp. 10-12]

Nel Capitolo primo, Musti già premette che «una storia dei Greci non può non essere preceduta da una storia della Grecia, da una descrizione della cultura, nel senso più lato, dell’ambiente in cui essi penetrarono. C’è dunque una Grecia prima dei Greci» [p. 13]. Segue una magnifica lezione di metodologia storica.

Perché dall’archeologia e dalla preistoria (…) si passi alla storia, occorre poter delineare meglio il rapporto tra soggetti storici determinati e le culture o civiltà nel loro complesso, perciò la presenza, l’identità, lo sviluppo di quei soggetti, i loro conflitti, insomma tutta la catena degli eventi che risultano dall’interazione tra soggetti e e ambiente, dall’apporto di soggetti storici individuali alle civiltà e alle culture: tutte cose per le quali le maglie della documentazione archeologica risultano troppo larghe, per consentire anche solo un’ipotesi di ricostruzione storica.
E vengono portati alcuni esempi (lo sviluppo delle fortificazioni, diffusione del meandro e della spirale nella decorazione dei vasi, i movimenti dei popoli etc.) nei quali si possono formulare quei giudizi «di carattere ‘storico’ (…), che l’archeologia non è in grado di dimostrare» e in cui è evidente che «i progressi dell’archeologia sono ormai sempre più trascrivibili in affermazioni di continuità culturali (…); o, come sarebbe più giusto dire, questa disciplina, fondamentale negli studi, coglie un tipo di movimento diverso da quello che è oggetto della storia che ricostruisce gli avvenimenti. Le forme culturali rivelano una loro fluidità, vischiosità, interconnessione, una lunga durata, che ha solo in parte a che fare con quel tipo di movimento in cui consiste la successione degli eventi storici, quelli di cui sono protagonisti i soggetti della storia. [pp. 15-16 (cfr. p. 45)]

Similmente farà più avanti, ma solo di sfuggita, in riferimento alla filologia: dirà che in certi casi storici viene toccato «un terreno nel quale non si conseguono risultati attraverso argomentazioni di carattere filologico» [p. 56]. Fondamentale, da un punto di vista prettamente storiografico, è invece l’apporto di Musti nella datazione dell’alto arcaismo. Lo spiega ampiamente lo stesso storico.

In generale, per ‘alto arcaismo’ si intende il periodo corrispondente, nella storia della ceramica, all’orientalizzante (antico, circa 730-630; e recente, circa 630-580, con varianti); ‘tardo arcaismo’ è quello che va dal 580 circa alle guerre persiane. Per ragioni di fatto (le realtà politiche greche dell’VIII-VII secolo sembrano a noi avere lunghe radici nei secoli post-micenei, i c.d. ‘secoli bui’, fine XI-metà VIII secolo, nell’accezione più estesa dei Dark Ages: ve ne sono di più ristrette, e limitate al sec. X e a parte del IX) e per ragioni di coerenza lessicale (perché si dovrebbe adottare per tali secoli intermedi la definizione ‘ceramica’ di Protogeometrico e Geometrico – rispettivamente, circa X secolo e circa 900-730 a.C. – e per le età successive una cronologica?), ciò non soddisfa. Anche la definizione di secoli bui sembra insoddisfacente perché un po’ impressionistica, e destinata poi fatalmente a variare da un autore all’altro, secondo le personali convinzioni e in omaggio alle nuove scoperte, che via via illuminano quel buio; e quella di Medio Evo può indurre ad anacronistiche assimilazioni (…) o potrebbe (magari ingiustamente) suggerire l’immagine di un periodo di semplice regresso, per un’epoca che invece si rivela alla fine costruttiva, e preparatoria del periodo arcaico nella sua più piena espressione. Noi proporremo perciò una definizione di ‘alto arcaismo’ per il periodo che va dalla fine del’XI secolo al 730 circa; di ‘medio arcaismo’ per quel periodo (730-580 circa), che è oggi convenzionalmente indicato come ‘alto arcaismo’; e di ‘tardo arcaismo’, comunque, nell’accezione corrente (fondamentalmente, il VI e gli inizi del V). [pp. 49-50]

Suggestivo, a mio avviso, il modo in cui Musti tratta i miti. Certo, da ottimo storico non può che considerarli fonti primigenie del mondo che seguì la protostoria; tuttavia è possibile avvertire una reverenziale ammirazione per quelle forme culturali umane che dal mito traevano i loro schemi vitali, le loro origini, le loro tradizioni – in questo caso i Greci. Ad esempio, parlando del ghénos – la stirpe antica del soggetto greco («le grandi famiglie o consorterie nobiliari»), il suo manto tradizionale, il suo immaginifico corredo genetico direi – in un senso ampio e riferito alle diverse realtà greche, Musti afferma che «il mondo miceneo era lì come un arsenale di miti, a disposizione di chi volesse servirsene» [p. 58].
Come detto, negli altri capitoli questo tipo di rilievi è più difficile da trovare. Tuttavia non mancano altri pregi da scoprire. Del Capitolo secondo è interessante rilevare, a parte un’appendice su Esiodo (anche in rapporto alla nozione di tempo) [p. 135], come Musti desideri dare una rilevanza metodologica alle “cose sulle parole”. Seppure sia possibile essere in disaccordo con questo assunto in alcuni ambiti – come è il mio caso – è probabile che in un ambito di ricerca storica esso possa avere i suoi frutti. Lo riporto tuttavia per completezza: premesso che «una tradizione di scuola vuole che si cominci dai nomi» (“come non seguirla?”, non posso trattenermi dal domandare), Musti ampiamente dà prova di attribuire rispetto a codesta scuola applicandone il precetto su termini e fenomeni come tyrannos (“signore”) e mònarchos (“chi governa da solo”); premesso ciò , dunque, conclude poi che «sarebbe comunque davvero rischioso proporre l’indagine sulla parola tyrannos (o tyrannìs) a quella sulle cose: il buon ordine logico e storico è sempre quello che fa precedere, o almeno prevalere, le cose rispetto alle parole» [pp. 99-100]. Il buon ordine logico, appunto.
Spostiamoci al Capitolo quinto, solo per apprezzare il livello a cui Musti cerca di descrivere le realtà storiche. Prendo ad esempio un confronto tra Sparta e Atene, descritto come segue.

Sparta [intorno alla fine delle guerre persiane] è la città che psicologicamente si configura come il mondo della conservazione, dell’avversione al nuovo, del timore di ciò che è diverso, distante, in movimento; Atene è la città del coraggio, dell’audacia, dell’iniziativa, dell’intraprendenza che sconfina nel gusto del rischio, dell’avventura, del nuovo e del grande, spesso del troppo grande. [pp. 217-218]

Nello stesso capitolo compare un’importante critica al metodo storiografico adottato nei manuali, sull’espressione “prima guerra del Peloponneso”. Musti, preferendo dire “la guerra portata dai Peloponnesiaci contro Atene”, afferma che essa «è impropria e fuorviante» per il semplice fatto che

parlare di una prima guerra del Peloponneso, per una serie di conflitti tra Atene e Sparta (459-446), che per la massima parte ebbero come teatro il Peloponneso, significa dunque pregiudicare – e in senso improprio – il significato autentico dell’espressione Peloponnesiakòs pòlemos. Quest’ultima è definizione, per la guerra scoppiata nel 431 a.C., largamente diffusa nei testi antichi, che trae però la sua origine dall’impostazione stessa di Tucidide: infatti, a parte il complesso problema delle responsabilità ultime, per Tucidide non sussiste dubbio sul fatto che, ad aprire le ostilità nell’immediato, fu appunto la Lega peloponnesiaca, capeggiata da Sparta. La guerra del Peloponneso è insomma per lui una guerra che viene portata dal Peloponneso contro l’Attica. [p. 240]

Tucidide, insieme ad Aristotele (il cui pensiero viene spesso contrapposto a – e fatto dialogare con – quello tucidideo), credo sia una delle fonti più citate – e usate come criterio risolutivo – in questo imponente manuale storico-metodologico di Musti.
Attraversa diversi momenti della storia dei Greci il concetto di democrazia. Musti non perde occasione, nei vari momenti, di soffermarsi sugli aspetti culturali e “definitori” della questione. Un esempio su tutti, la distinzione che viene fatta con accortezza e senza badare al numero delle pagine (per la fortuna del lettore che vuole capire davvero qualcosa di storia greca, quindi di storia) di eleutherìa e demokratìa. Dove il secondo termine segnala un rapporto interstatale che nel primo non si dà, essendo più un termine “costituzionale” [pp. 544 (per Pericle e il suo concetto di democrazia, cfr. pp. 230 e segg.; mentre per il rapporto tra democrazia e libertà, cfr. pp. 350-351)].
Elemento centrale dell’intero volume – per chi fosse interessato ad un approfondimento filosofico della storia greca – è il caso Socrate. Su questa emblematica figura Musti si sofferma ampiamente nelle pagine centrali dell’opera. Sarebbe per me soddisfacente davvero riportare tutto quello che viene scritto dallo storico in proposito. Tuttavia, limitandomi ad esortarne la lettura, per brevità riassumo e riporto solo degli stralci di testo.

La singolare vicenda dell’uomo condannato a morte dalla città che egli rispetta più di ogni altro, merita risposta solo dopo l’esame del rapporto Socrate-città; la posizione distaccata del filosofo di fronte alla morte è l’esito ultimo d’un rapporto complesso. [p. 327]

Difatti Musti parla di «portata e limiti della ‘separatezza’ dell’intellettuale», dicendo che la filosofia di Socrate avvicina – sebbene con sofismi degni di intellettuali molto “separati” e distanti dal comune cittadino – l’intellettuale alla città. Con Socrate

ora si è resa autonoma la funzione intellettuale, che comincia a rappresentare un momento distinto nella vita dell’individuo. E qui prevale il ‘privato’; (…) l’importanza dell’educazione dei giovani, e la evoca a sé e a quelli come lui, come uno spazio di mediazione tra l’individuo, il privato e la pòlis. (…) è l’intellettuale in un rapporto privato con la città. [p. 329]

A questo punto la domanda di Musti diventa la seguente: perché Socrate venne condannato soltanto nel 399 e non già nel 403 quando era stata restaurata la democrazia? Vengono offerte diverse risposte al problema e lo storico le espone schematicamente, per poi dare la sua interpretazione – a mio avviso esemplare.

Taylor si è posto il problema, e lo risolve, supponendo (…) che la rivoluzione e la controrivoluzione (404/403) avessero portato il caos nel lavoro ordinario dei tribunali: tutto il corpo delle leggi attiche dovette essere sottoposto a revisione, e codificato, ad opera dei 500 nomothétai, che conclusero i lavori solo nell’anno 401 (…). Ecco perché il procedimento contro Socrate non poté essere avviato nel 403; (…) l’interpretazione più soddisfacente, ma che va resa un po’ più esplicita, è quella di De Sanctis: l’integrale unità della pòlis, che si voleva ricostruire al prezzo della rinuncia alle vendette, sarebbe stata frantumata dal lògos di Socrate e dal suo dàimon; in sostanza, la riconquistata unità esigeva che si eliminassero gli autori di azioni dissolvitrici, come Socrate. (…) Mi pare comunque da escludere (…) la posizione di Finley, per il quale (…) Anito, Meleto e Licone si sarebbero coalizzati contro il filosofo per ragioni personali, su cui possiamo fare soltanto congetture. (…) Sociologicamente legato all’esperienza della cultura democratica e urbana, certamente Socrate non rappresenta l’ala democratica; (…) era convinto che si dovesse riformare il sistema elettorale ateniese (…) nel senso della scelta non con il sorteggio, ma con un voto di designazione che premiasse le competenze reali nel campo politico. Egli vuole trasformare (e proprio in questo è la genesi del suo tendenziale distacco dalla democrazia) la politica in una téchne, cioè in un’attività di ‘competenti’. (…)
Le accuse a Socrate furono fondamentalmente due nella formulazione definitiva (…). La prima era (…) il «non onorare gli dèi» (…); l’altra accusa è quella di avere «guastato» i giovani. (…) [A]ppare comunque evidente il peso che ebbe il richiamo alle responsabilità di Socrate come maestro di Crizia e Alcibiade. (…)
Socrate, in realtà, mette sotto accusa il concetto stesso di «tradizione», più esplicitamente sul terreno della insegnabilità della virtù politica (…). Nel Menone Socrate ammette che ciascuno dei grandi del passato (Temistocle, Aristide e Pericle in primo luogo, e poi anche Tucidide di Melesia) siano degli agathoì; ma nega che i figli ne abbiano ereditato la virtù politica. (…)
Anito e Meleto possono rappresentare due linee politiche convergenti contro Socrate. L’uno è l’esule democratico, anche se fra i democratici è un tradizionalista (…); l’altro (…) rappresenterebbe, se non il gruppo oligarchico estremo dei Trenta, un gruppo che con i Trenta ha cooperato in certa misura. (…) «I nostri mali sono stati uomini come Crizia», può dire la parte oligarchica, che Meleto rappresenta da posizioni moderate; e Alcibiade è stato la «rovina», per la parte democratica che Anito rappresenta. Va eliminato Socrate che è stato maestro di entrambi: (…) si condanna l’uomo che potrebbe continuare a produrre uomini come Crizia e Alcibiade; Anito e Meleto rappresentano la gente «di mezzo» (…); Socrate diventa la vittima designata, la sua morte il suggello della nuova concordia (homònoia). [pp. 340-344; l’adozione della procedura del sorteggio (in luogo proprio dell’elezione per designazione) degli arconti era avvenuta nel 487/486, circa ottant’anni prima (cfr. p. 189)]

Gadamer ha espresso delle riflessioni sulla figura di Socrate, condannato da Atene. Le conclusioni cui giunge sono diverse da quelle di Musti. Platone, degno seguace di Socrate, amava Sparta ma abitava ad Atene. Probabilmente volle fondere le due città rifondandone una in Sicilia: Siracusa. Impossibile. Terra di desideri, la Sicilia rappresentava per i Greci della madrepatria l’eldorado delle possibilità, ampio spazio per costruire sogni. Ancora oggi questa terra è più un possibile che un reale.
Non è un caso, tornando a Musti e alla sua pregevole opera, che la fine della storia dei Greci (e dell’Ellenismo) venga sancita dalla chiusura (ad opera di Giustiniano, nel 529 d.C.) di quella scuola filosofica fondata da quel sognatore. Viene giustamente detto su Giovanni Filopono che «quando la scuola di Atene scomparirà, chiusa nel 529 da Giustiniano perché non cristiana, la scuola di Alessandria assumerà il ruolo guida per il passaggio della cultura dall’antichità al Medioevo, grazie alla svolta avviata da Ammonio e proseguita da Filopono, per cui sarà l’anello di trasmissione, dopo l’invasione musulmana, dell’aristotelismo alla cultura araba, dalla quale sarà nuovamente re-introdotto in Occidente nel secolo XIII» [sui tentativi di Platone in Sicilia, cfr. pp. 406-408].

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.