Il dio sui pedali

Parlavamo poi molto in quelle sere,
in qualche bar, dopo il concerto, insonni e morti,
di politica, ciclismo, storie vere

(F. Guccini – C. Lolli, Keaton)

I pochi barlumi di divinità che ci sono rimasti rilucono forse, sebbene a tratti, nello scintillante sudore di assolati meriggi estivi, quando i raggi dorati si riflettono su muscoli tesi e fiati spezzati, ondeggiati dalle spalle all’andamento dei pedali, en danseuse, danzando su pendii e tornanti, anelando al rosa e al giallo, come dipingendo una tela di Bonnard.
È il gioco, impuro e meraviglioso. Hegel ne rintraccia l’essenza:

Con questo lottare, correre e combattere non si faceva sul serio, non c’era nessuna necessità di difendersi, nessun bisogno di dare battaglia. […] Il gioco è però la serietà superiore, poiché nel gioco la natura ha preso la forma dello spirito. È pur vero, in queste gare il soggetto non è progredito fino alla suprema serietà del pensiero; tuttavia, nell’esercizio della corporeità l’uomo mostra la sua libertà, dà prova di aver trasformato il corpo nell’organo dello spirito1.

Nell’esercizio giocoso della corporeità si accede, dunque, alla trasfigurazione corporale nello spirito. Per il greco ciò non significa altro che il dio possiede un corpo e come tale è raffigurabile, anzi immaginabile. Il corpo sensibilmente marmoreo della divinità è simile ai muscoli d’acciaio dello sportivo; le prestazioni politiche e quelle sportive per il greco si sovrappongono: difatti, se la vittoria ai giochi conferisce fama e lustro politici, l’ingresso di Temistocle allo stadio può venire applaudito più della vittoria di un atleta. Pertanto, fa parte a pieno titolo del mito contemporaneo la leggenda secondo cui la notizia della vittoria di Gino Bartali al Tour del 1948 ha stroncato sul nascere una sommossa provocata del ferimento di Togliatti.
Lo sport è tanto più mitico quanto più il corpo è esercitato; forse è per questo che la chiave di accesso al mito ed alla divinità è stata ricercata nel ciclismo. Non è un caso che tra tutti i Miti d’oggi di Barthes l’unico che pare essere sopravvissuto alla storia (ed un mito che soccombe alla storia non è tale) sia Il Tour de France come epopea. Barthes può lasciarsi scappare frasi che per altri sport parrebbero troppo enfatiche: «Il corridore trova nella Natura un ambiente animato col quale mantiene scambi di nutrimento e di soggezione»2. Rivive il rapporto del greco con la natura, che troverà il suo acme sul petrarchesco Monte Ventoso, definito da Barthes un ‘dio del Male al quale bisogna sacrificare’; ed è veramente commovente come questo dio del Male abbia concesso l’ultima resurrezione a Marco Pantani, vincitore nel 2000 su questa cima a discapito di sua americanità Lance Armstrong.
I corridori sono eroi omerici; il Tour è lo spazio omerico, dunque la grecità rediviva:

Il Tour dispone di una vera e propria geografia omerica. […] Mediante la sua geografia il Tour è quindi censimento enciclopedico degli spazi umani; e se si volesse riprendere qualche schema vichiano della Storia, il Tour vi rappresenterebbe quell’istante ambiguo in cui l’uomo personifica fortemente la Natura per affrontarla più facilmente e liberarsene meglio3.

Come gli eroi omerici, per esempio Diomede, giungevano all’aristìa, assistiti da un dio, così per Barthes:

Lo scatto implica un ordine soprannaturale in cui l’uomo riesce in quanto ci sia un dio ad aiutarlo, […] e Charly Gaul, beneficiario prestigioso della grazia, è appunto lo specialista dello scatto; egli riceve la sua elettricità da un intermittente commercio con gli dèi; a volte gli dèi lo visitano e lui fa strabiliare; a volte gli dèi lo abbandonano, lo scatto è esaurito, Charly non è più buono a niente4.

A proposito di ciò, al di là delle questioni sul doping che vedremo poco sotto, Marco Pantani era sempre pervaso dal dio dei monti; il suo scatto non scemava mai, l’elettricità non aveva intermittenza; ma muor giovane colui ch’al cielo è caro.
Sul ciclismo è sempre pesata l’ombra del doping; Barthes se ne lamenta in questi termini:

C’è una terribile parodia dello scatto, la “bomba”; drogare il corridore è tanto criminale, tanto sacrilego quanto voler imitare Dio; è rubare a Dio il privilegio della scintilla5.

A questa critica, se ne potrebbe aggiungere un’altra formulata in questi termini da Ernst Jünger:

[nello sport] si manifesta lo sforzo non solo di rendere normale un alto grado di salute fisica ma anche, attraverso i primati, di toccare i limiti estremi delle possibili prestazioni, e perfino di superarli. Nell’alpinismo, nel volo, nel salto dal trampolino si pretendono risultati che superano le umane capacità e la cui conquista richiede un automatismo che presuppone la mortificazione. A loro volta questi primati innalzano i parametri della normalità6.

Il divario tra normalità e soprannaturale è analizzato da un filosofo ciclista amatoriale, il quale ha avuto il privilegio, qualche anno fa, di affrontare il dio del Male, il Monte Ventoso, sulla soglia della sessantina. In un articolo rilasciato allo Spiegel7 Peter Sloterdijk ci dà una prospettiva affascinante; egli dice di andare in bicicletta perché «il ciclismo per me rappresenta un ritorno all’uomo primitivo delle savane, che durante una caccia trascorreva l’intero giorno correndo».
È molto vicino alla prospettiva mitica di Barthes, affermando per esempio:

Comprendi che l’impresa compiuta da questi uomini è totalmente oltre la comprensione degli ordinari mortali. È pressoché come studiare teologia. Devi raggiungere il primo grado di iniziazione per capire che non stai capendo niente. […] Chiunque può lottare in distese pianeggianti, ma quelli che sono capaci di duellare sulla peggiore delle montagne [il Monte Ventoso] meritano già di essere chiamati Ettore e Achille.

Anche per Sloterdijk quello che afferra i corridori è un invasamento divino; egli porta l’esempio di Armstrong, quando nel 2003 cadde a causa di una busta di plastica; ripresosi, fu penetrato da un’ira che Sloterdijk paragona a quella di Achille e che provocò lo scatto; tale furia «lo condusse alla vetta, facendogli superare ogni altro corridore lungo la via».
Qui tocchiamo un punto fondamentale, giacché l’intervistatore gli chiede se Armstrong fosse dopato; Sloterdijk fa un’affermazione pienamente condivisibile, ossia che egli era dopato come chiunque altro; l’aspetto più teoreticamente proficuo è che il doping in qualche modo solleva il velo della soprannaturalità ed al posto di combattenti lascia vedere solo ciclisti proletari, senza poesia, paragonabili a impiegati regolari. Per esempio di Bjarne Riis, vincitore del Tour del 1996, il primo dopo l’epoca Indurain, ha confessato di aver vinto quel Tour da dopato e di tenere la Maglia Gialla in garage.
Quello di Sloterdijk non è un moralismo; gli interessa la dimensione poetica, o meglio quella mitica fatta dell’onore e dei suoi simboli; se togli questi «finisce tutto». Egli non è contrario per principio al doping; tuttavia, a differenza di altri, non ne ha mai fatto uso, giacché dice di dipendere dal ‘ciclismo interiore’: «Il corpo umano è un’opera d’arte d’endocrinologia. Tutto ciò che devi fare è stimolarlo correttamente ed esso ti ringrazierà con una sinfonia di droghe interne».
Il cerchio si chiude; la natura è penetrata dal corpo stimolato e portato all’estasi tutta spirituale, perché naturalmente chimica, delle droghe interiori. È in questa estasi naturale e corporea che si schiude la dimensione spirituale forse dell’ultimo mito sportivo che ci rimane. Il dio soggiorna in chi procede en danseuse.

Note
1. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari 2003, pag. 204-205.
2. R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, pag. 110.
3. Ivi, pag. 111.
4. Ibidem. Un giovane interessante, che dovrà provare in questo 2009 di essere pervaso dal dio è Andy Schleck, che pare averne tutti i numeri.
5. Ibidem.
6. E. Jünger, Oltre la linea, in E.  Jünger – M. Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano 1998, pag. 67.
7. Un sentito ringraziamento ad Antonio Trovato per avermelo segnalato.

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