Immaginare illimitatamente

Teatro Coppola – 12 maggio 2012. Presentazione del volume Umberto Eco: Odissea nella biblioteca di Babele di Marco Trainito.

La prima cosa che vorrei precisare in questo mio breve intervento è che sarò fortemente critico, forse anche più di quanto lo è stato Davide [Dell’Ombra] prima di me. So che posso permettermi di esserlo, in primo luogo perché conosco Marco da anni, ci lega una stima reciproca, che, per quel che mi riguarda, trovo accresciuta dall’erudizione di cui fa mostra proprio nel libro di cui ci stiamo occupando. Inoltre, Marco non è un tipo che le manda a dire; se mi permetto di muovere critiche radicali alla sua impostazione è perché so che mi saprà rispondere a tono. Il suo libro è già stato molto elogiato da Eco, che ha anche accettato alcuni dei suggerimenti che Marco gli ha proposto; farne un ulteriore elogio, dalla mia modestissima parte, suonerebbe come un’appendice alle parole di Eco stesso. Ciò che posso dire è che pur trattando temi a volte molto ostici riesce sempre a essere molto chiaro. I temi trattati sono veramente tanti e stimolanti al punto che v’è l’imbarazzo della scelta sugli argomenti di cui si potrebbe parlare ora e si è piacevolmente costretti a selezionare.

In secondo luogo, mi scuso già da ora perché nella mia critica perenne e radicale forse sarete coinvolti tutti, anche se molti di voi non li conosco. La cosa, credetemi, non è affatto casuale. Lungo il mio breve percorso filosofico sto cercando di recuperare la nozione di fastidio. Qui (intendo qui nel tavolo da cui sto parlando, ma anche qui inteso come Teatro Coppola) si rifugge l’accademismo.

Gilles Deleuze sosteneva che la filosofia serve a rattristare, a smascherare, in quanto è il diritto al controsenso. A sostegno di questa tesi riporta un passo di Nietzsche:

Diogene […] obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: “Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?” Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia della università: “Non ha mai turbato nessuno” (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III. Schopenhauer come educatore, tr. it. di M. Montinari, in F. Nietzsche, Opere, vol. III, tomo I, Adelphi, pag. 457).

Se dunque avrò turbato o infastidito, avrò assolto il mio modesto compito di aspirante filosofo. Su questa nozione di fastidio, vi rimando, se vorrete, a un incontro su Carmelo Bene che faremo in questa stessa sede.

Veniamo a noi. Il titolo del libro di Trainito è già un omaggio a Eco stesso, dato che si citano due opere in una sola frase, una da Omero e l’altra da colui che a volte viene chiamato l’Omero del Novecento, ossia Borges. Il cardine attorno a cui ruota l’intero libro è la nozione di ricorsività, anche se apparentemente questo tema è solo accennato. La prima ricorsività da cui probabilmente discendono tutte le altre è quella così intrisa di magia e mitologia che riguarda il viaggio di Odisseo. In realtà Odisseo non compie un viaggio, ma un serie di viaggi in cui grosso modo lo schema è uguale: parte da un luogo in cui ha trascorso un periodo più o meno lungo, approda in un posto in cui accade qualcosa di piacevole o spiacevole che lo trattiene per un periodo più o meno lungo, quindi riparte e tutto si ripete ancora e ancora. Com’è noto, sulla base di quanto dice Tiresia nell’undicesimo canto dell’Odissea, vuole una certa tradizione che Odisseo abbia ripreso il viaggio persino dopo essere tornato a Itaca. Per Dante, lo sappiamo, muore dopo aver varcato le Colonne d’Ercole; forse è meno noto che Pascoli ne L’ultimo viaggio, poesia degli stroardinari Poemi conviviali, gli fa percorrere a ritroso tutte le tappe del nostos, dove si congiungono viaggio e nostalgia, in cui tutto è diverso da prima, perché il tempo e la vecchiaia hanno fatto il loro corso.

Nel libro di Marco, altri temi sembrerebbero avere più importanza, quali il falso, l’interpretazione, il labirinto soprattutto. Se sono di questo avviso, ovvero quello per cui è la nozione di ricorsività a fungere da perno tra l’altro mobile, è perché a questo ci autorizza il testo stesso:

Si intende proprio alludere a un approccio che, a partire dal viaggio conoscitivo di Ulisse, vede nella biblioteca dell’abbazia del Nome della rosa un modello possibile della nozione di Enciclopedia tanto cara a Eco, nei cui romanzi, che ne sono di volta in volta una simulazione in scala, personaggi e lettori si perdono; si specchiano e si conoscono come accade nei corridoi eternamente ricorsivi della biblioteca borgesiana e nelle immensità dello spazio kubrikiano» (pag. 8 [ove non altrimenti specificato, si cita dal libro di cui ci stiamo occupando]).

Tuttavia, anche se il testo di Marco non mi avesse autorizzato, io avrei creato da me stesso il mio perno. A questo proposito, mi preme aggiungere adesso che prendo le distanze dalla critica della cosiddetta mistica dell’interpretazione illimitata (della quale si fa cenno a pag. 134). Questa critica di Eco è pressoché totalmente condivisa da Marco. Io invece la rigetto, quasi completamente. La mia critica alla critica dell’interpretazione illimitata è più radicale ed estrema della critica che critica, perché rigetta l’interpretazione e accoglie l’illimitato. Vedremo appena un po’ in dettaglio cosa significhi tutto questo.

L’interpretazione artistica, semplicemente, non si dà. Nell’arte, non esistono fatti, ma nemmeno interpretazioni; esiste solo l’illimitato dell’immaginazione. Io posso fare dire a un testo tutto quello che voglio, anche senza badare al testo stesso, anche arrivando a far dire a esso l’opposto di quanto l’interpretazione consenta. Ora cerchiamo di capire perché.

Intanto io vorrei pure mettere da parte tutta la questione che affronta Marco, ovviamente sempre sulla scorta di Eco, riguardo al Lettore o Autore Modello o Empirico. La faccenda del Lettore Modello è tutta dalla parte della fruizione. Qui, scusate se mi permetto ancora, vorrei seppellire tutta la questione ermeneutica della fruizione artistica, etichettandola bruscamente come “roba da museo”, nel senso letterale del termine.

Del resto, io sono dalla parte di Swann, ossia di Proust:

Ogni lettore, quando legge, è il lettore di se stesso. L’opera è solo una sorta di strumento ottico che lo scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso. Il riconoscimento dentro di sé, da parte del lettore, di ciò che il libro dice, è la prova della sua verità (Il tempo ritrovato).

Questo significa che l’interpretazione (che mi pare soltanto una forma di fruizione) è totalmente scavalcata. Non c’è nulla da interpretare. C’è solo da andare incontro all’opera d’arte oppure c’è da lasciarla venire incontro.

Chiariamo finalmente un punto: l’interpretazione è un lavoro scientifico, si interpretano i fenomeni. Da questo punto di vista, che è molto unilaterale per forza di cosa, dato che ricerca l’oggettività e l’universalità, è lecito rifiutare la mistica dell’illimitato; è vero: c’è il fatto bruto, la cosa che resiste alle nostre fantasticherie, alle connessioni arcane, alle corrispondenze analogiche. Tuttavia viene da chiedersi: cui prodest? A chi giova? Gli approdi scientifici dell’interpretazione letteraria sono stati lo strutturalismo alla Roland Barthes (e si provi a rileggere ora l’indigeribile polpettone Miti d’oggi, Einaudi, in cui i miti contemporanei suonano meno comprensibili dei miti di ieri e ieri l’altro) e appunto la semiologia alla Umberto Eco.

Da una parte, poi, ci si scaglia contro l’interpretazione illimitata; dall’altra l’Eco saggista e romanziere (fa bene Marco a sostenerne la continuità; la gente continua a cercare dualismi ovunque, uno dei nostri compiti principali è sanare queste fratture) teorizza e attua l’opera aperta. Il risultato sembra un labirinto da settimana enigmistica, dove tra tante strade solo una è buona e le altre sono vicoli ciechi; non solo, se non siamo stati abbastanza bravi da trovare da soli la strada, nell’ultima pagina poi troviamo pure le soluzioni.

Non me ne vogliate, non parlo di qualità letteraria o scientifica; parlo di forma, perché l’opera aperta ci inganna con l’illusione della costante ricerca, libertà interpretativa, serie pressoché infinita di significati; ma a vincolarci in uno spazio ristretto giungono gli anatemi contro l’interpretazione illimitata. Tutto ciò assomiglia molto al libero arbitrio dei cattolici: Dio (o l’autore, o la realtà fenomenica) ci ha donato la libertà, ma se non facciamo come dice lui ci sbatte all’inferno (o ci condanna alla fallacia ermeneutica).

Ci siamo caricati dell’enorme peso di stabilire che l’arte ha a che fare con l’illimitato dell’immaginazione. Tutta l’arte ha a che fare con immagini. A questo punto distinguiamo opportunamente l’immagine dalla figura: per esempio, è figura ciò che io vedo in questo momento, ciò che percepisco in modo strettamente legato alla vista; è immagine tutto ciò che ricordo, sia suono o figura, o che non esiste se non nel mio pensiero o che penso possa esistere in futuro o che riesco a creare combinando dei pensieri. La figura, allora, è caduca, temporale. L’immagine è eterna, ma non nel senso che duri un tempo infinito, bensì perché è extra-temporale, al di fuori del tempo. L’arte, pertanto, ha a che fare con questa immaginazione illimitata.

Quando io mi pongo artisticamente, non ho e non devo avere alcun ritegno a inventare, a far dire al libro di Marco che Eco ha scritto l’Odissea e a far dire ai libri di Eco che Marco ha scritto La biblioteca di Babele (e credo, caro Marco, che ti sarebbe proprio piaciuto!). Il pensiero corre subito a Borges che si assunse questo rischio artistico fino in fondo, immaginando di sana pianta personaggi e libri, talvolta creduti realmente esistenti dai lettori; ma una volta gli capitò di parlare di un suo erudito amico, lui sì una persona in carne e ossa, e tutti credettero si trattasse invece dell’ennesima finzione.

Il contesto in cui Marco critica l’interpretazione illimitata è altamente significativo. Siamo nel terzo capitolo, che titola: L’iniziazione del lettore. Leggiamo il passo in questione, tenendo presente che ci si riferisce a L’antro delle Ninfe di Porfirio:

Porfirio, infatti, sembra rispettare abbastanza fedelmente le caratteristiche della “mistica dell’interpretazione illimitata”, elencate in nove punti [da Eco] che “disegnano il quadro di una sindrome patologica dell’allusione e del sospetto, e implicano una metafisica, tanto influente quanto sotterranea, della somiglianza”: l’interpretazione può piegare il testo a infinite connessioni, mostrare la coincidenza degli opposti, celebrare l’inadeguatezza del pensiero davanti al mistero, sviscerare la polivocità dei significati del testo, distinguendosi così dai lettori dozzinali, i quali comunque possono diventare eletti se capiscono che possono far dire al testo quello che vogliono, sospettando enigmi dietro la lettera, la quale è un vuoto di senso da riempire, a dispetto di chi, come lo studioso di semiotica, crede che il linguaggio serva per comunicare un pensiero univoco (pag. 134).

La risposta a tutto questo, per Marco e per Eco, è telegrafica:

In Omero non c’è nessun segreto (pag. 135).

Io non credo alle dietrologie, alle teorie del complotto, ai cospirazionismi, all’oroscopo, a Dio. Questo deve essere chiaro. E concordo pure che in Omero non c’è nessun segreto. Ma lo dico nel senso opposto rispetto a Eco e a Marco. Lo dico nello stesso senso iniziatico in cui posso dire che nei misteri eleusini, pratica iniziatica per eccellenza, non c’è nessun segreto. Quando Omero (o chi per lui, non entriamo nei particolari) scrive dell’antro delle Ninfe, è tutto chiaro per l’uomo dei sui tempi, è tutto sommato decifrabile per Porfirio che vive mille anni dopo, diventa tutto oscuro per noi che viviamo duemila anni e mezzo dopo.

Certo, in Omero non è in gioco nessuna pratica misterica o iniziatica. Tuttavia, quanto ho detto si può dire anche per Eleusi, dove la pratica iniziatica è il fulcro del rito. Per tutti gli ateniesi (e quando dico tutti intendo, da un certo punto in poi, proprio tutti, anche gli schiavi) era evidente che il mistero eleusino non aveva misteri. Era il segreto di cui tutti erano a conoscenza. Chi non ne fosse ancora convinto legga prima Plutarco, poi Rohde e infine Calasso.

Tutto questo gran mistero eleusino non era altro che la rappresentazione di un mistero. Nessuno ha rivelato il segreto, perché non c’era nulla da rivelare. Marco centra il punto, ma lo valuta negativamente, o forse lo sottovaluta:

[I] testi ermetici ed iniziatici dei ciarlatani […] promettono un segreto sempre differito, perché “vuoto”, e sembrano morire dalla voglia di rivelare “una cosa importante, ma così importante che deve rimanere segreta” (P[endolo] 154). […] Le cose segrete, se rese pubbliche, vengono svilite e, diffuse tra i profani, perdono la grazia; dunque, non dare margherite (o perle) ai porci e non fare all’asino un letto di rose. Viceversa, chi ha qualcosa da rivelare, per quanto difficile sia da comprendere e purché non sia un segreto vuoto, non teme di offrirlo in pasto anche agli asini (pag. 113).

Il fatto è proprio questo. I segreti non vanno detti. Nessuno può rivelare un segreto. Il mistero eleusino non era detto, perché non si poteva dire. Il mistero eleusino era rappresentato. Ogni segreto è proprio la rappresentazione di un segreto. La rappresentazione intesa in senso teatrale (ed è ciò che sto tentando di fare ora io, qui, in questo teatro). La rappresentazione teatrale è il segreto che non può essere detto ma che essendo frutto dell’immaginazione può solo essere rappresentato. Del resto, ed è questo l’aspetto artistico di tutta la vicenda, meglio un segreto immaginario che la vita cruda e nuda degli uffici, dei moduli, della burocrazia, degli sportelli e della catena di montaggio.

Potrei anche finire qua e chiudere il mio mistero in me, come Turandot, ma vorrei aggiungere ancora qualcosina su uno scorcio del libro di Marco, posto proprio alla fine. Si tratta del rapporto tra letteratura e impegno civico. Mi rendo conto che questo era un tema obbligato fino agli anni Settanta. Oggi la parola “impegno” è stata sostituita dalla parola “attualità”. Ci si chiede se un romanzo o un’opera d’arte sia ancora attuale. Con questo termine si intende specificare se essa abbia o no ancora qualcosa da dire ai lettori di oggi. Immaginiamo per un momento di chiederci se l’Iliade sia ancora attuale. L’Iliade è attuale. Questa frasetta mi suona un po’ comica. Il problema dell’attualità mi sembra fuorviante; io propongo sempre, quando posso, la nozione nietzscheana di inattuale; o meglio ancora quella deleuziana di intempestivo (chi avrà il piacere o la temerità di venirci ad ascoltare in questa stessa sede a proposito di Carmelo Bene forse ne avrà maggiori dettagli).

Ma torniamo al nostro argomento: a proposito di impegno e letteratura, molti di voi sapranno che Pasolini sosteneva che scrivere non ha nessun senso, è uno scopo a sé; tuttavia, chi scrive, di solito, è anche un cittadino che, si spera, dovrebbe impegnarsi civicamente e questi due aspetti per Pasolini non posso essere disgiunti. Ci vorrebbe un incontro dedicato solo a questi temi.

Quando si parla di questo impegno civico torna in ballo nel libro di Marco la questione dei nomi e la vecchia diatriba sugli universali, ossia, semplificando, la questione se i nomi siano concetti astratti antecedenti alla cosa, oppure categorie mentali convenzionali che ci formiamo in seguito all’esperienza o, infine, se siano nella cosa stessa. Come nel marasma delle eresie medievali, a causa delle varie definizioni dei nostri giorni riguardo a integralismi, guerre sante, nemici e così via, questo dibattito sembra tornare prepotentemente in scena. Eco è costretto ad ammettere che

 “le parole sono pietre” e che bisogna stare attenti a definire e a saper distinguere (pag. 160).

Ora, riguardo agli universali, io non sono affatto realista, meno che mai nominalista (e forse farò arrabbiare il mio amico Davide). Nel senso che anche per me, per dirla con Eco, le parole sono pietre, ossia sono delle vere e proprie cose. Le parole sono cose accanto ad altre cose. Non esistono solo cose tangibili, ma anche cose intangibili, come i concetti e le parole. È con queste che spesso si uccide: certo, lo strumento materiale sarà un’ascia o una pallottola, ma, come si dice per i regali, è il pensiero che conta.

Prima di concludere, riprendiamo proprio una pagina de Il nome della rosa, riportata da Marco a pag. 72:

“Ma non dimentichiamo che ci sono anche segni che sembrano tali e invece sono privi di senso, come ‘blitiri’ o ‘bu-ba-baff’”. Il commento di Adso è sconsolato: “Sarebbe atroce – dissi – uccidere un uomo per dire bu-ba-baff”, ma Guglielmo gli ricorda che sarebbe atroce uccidere un uomo anche per dire Credo in unum Deum

Detto questo, mi rendo conto che Marco è un esperto di Wittgenstein, cosa che io non sono, ma personalmente ho sempre rigettato l’interpretazione analitica del suo pensiero. Secondo il mio modestissimo parere, quando Wittgenstein dice che chi lo ha compreso ha riconosciuto le sue proposizioni come insensate, se è asceso per esse e oltre esse, e che deve gettare via la scala dopo esser asceso su essa, allora è insensato anche il credere che l’interpretazione scientifica sia la sola corretta e veritiera, l’unica che abbia senso e possa dirci qualcosa sulla realtà. Faccio miei, ancora una volta, i moniti nietzscheani, credendo fermamente che i lettori e gli autori siano e debbano essere creatori di senso, dell’unico senso possibile, ossia quello artistico.

Ecco perché a conclusione del mio fastidioso discorso vi invito a gettare la mia scala e immaginare illimitatamente di là da essa.

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