Per una medicina olistica

L’anamnesi medica è ambigua e non risolutiva perché incapace di sciogliere il nodo tra memoria corporea e memoria mentale; nodo che in fine dei conti non è che una particolare declinazione del rapporto corpo/mente.
Se, difatti, è impensabile districare il profondo intreccio tra la struttura narrativa che permea i nostri ricordi (struttura che è l’impalcatura stessa della nostra identità) e il nostro essere corpo; se, in altre parole, assumiamo l’identità di corpo e mente, l’anamnesi medica non solo trova ragione d’essere in qualcosa che oltrepassa il puro aspetto fisiologico o biologico, ma acquista addirittura una funzione terapeutica. Ce ne mostra un chiaro esempio Bruner, quando ci racconta

due storie morali [che] trattano di vita e di morte e, guarda caso, hanno a che fare con la pratica della medicina1.

Nella prima storiella, Bruner ci racconta di un “Programma di Medicina narrativa”, voluto dal Collegio dei Medici e Chirurghi della Scuola di Medicina dell’Università Columbia di New York; qui accadeva che molti pazienti soffrivano e addirittura morivano perché i medici non ascoltavano le loro “storie”, ciò che essi avevano da dire loro riguardo la propria malattia; accadeva, insomma, che nonostante i medici seguissero i pazienti, semplicemente però non li ascoltavano, per una smania di “attenersi ai fatti” (come se le “storie” non fossero fatti). La conseguenza è stata che

alcuni pazienti “abbandonano le speranze”, non lottano più per la vita. […] I racconti dei pazienti contenevano proprio quegli accenni che avrebbero dovuto avvertire un medico curante che una particolare terapia non stava funzionando. […] “Una vita non è una registrazione su una cartella clinica”2.

La conclusione è l’ovvia responsabilità che ha il medico di ascoltare il paziente. Confortante e illuminante è comunque appurare che

il programma ha già cominciato a ridurre le morti dovute a incompetenze narrative nel Collegio dei Medici e Chirurghi3.

Ma c’è dell’altro. La narrazione, o comunque l’inserimento della terapia in un contesto narrativo, permette anche una riabilitazione più efficace; giacché, per esempio, a volte non è sufficiente un bravo fisioterapista che operi esclusivamente sulla fisicità del paziente. Bruner fa un ottimo esempio:

ci deve essere anche un racconto di una possibile guarigione, anche una storia di fantasia che trasforma il bambino malato, il terapista e un genitore nei personaggi di una storia western o poliziesca. […] Ciò che importa è una narrazione comune. La ragione da sola non ottiene il risultato. […] E non giova che il dottore ti assicuri “gli esercizi regolari ti guariranno, giovanotto”4.

Già da sola la dimensione narrativa del nostro corpo basterebbe a scalfire la mera fisicità della medicina, troppo poco attenta al tutto e parecchio interessata al particolare. L’idea, dunque, di una medicina alternativa non si rivolge ad un bislacco esot(er)ismo, ma alla complessità inscindibile che è l’essere umano. Ecco che, allora, prospettive come quelle di Vincenzo Di Spazio, pur debitrici della medicina tradizionale cinese e delle pratiche omeopatiche, presentano l’indubbia bellezza della coniugazione di approfondite conoscenze scientifiche e psicologiche all’olismo tipico delle culture orientali. Asse portante della concezione di Di Spazio è che la memoria umana sia incisa in precise collocazioni corporali; tutto ciò comporta un congiungimento dello spazio e del tempo. In particolare, le sue indagini gli hanno consentito

la scoperta di nuove “placche” cutanee5 localizzate sui versanti laterali dei processi spinosi del rachide, da C1 a L5. Si tratta di 24 coppie di punti spinali bilaterali, che rivestono il misterioso e affascinante ruolo di “recettori temporo-spaziali”. In altre parole, ogni punto spinale proietta un’epoca specifica dell’individuo secondo un preciso schema sessagesimale (ciclo di 60 anni)6.

Ora, indipendentemente dalla propensione a credervi o meno, ciò che qui conta è che si sta tentando una re-interpretazione della memoria corporea che in questo modo viene collocata spazialmente e dilatata temporalmente, giacché essa agisce anche a distanza di anni, ma soprattutto perché serba in sé anche il ricordo genealogico (più che genetico) di un individuo. L’irripetibilità di ciascuno sta nella ripetizione di tutto ciò che prima di lui sono stati i suoi avi. In aggiunta

riempie di meraviglia osservare come il corpo sia in grado di comunicarci messaggi di questa natura. Un banale stimolo artificiale come la digitopressione vertebrale può scatenare in modo immediato una risposta somatica, che fonde mirabilmente in se stessa le dimensioni del tempo e dello spazio7.

La forza di tali pratiche mediche sta nel riconoscere la memoria in toto del paziente e nel guardare alla natura ed al paziente stesso come veicolo di guarigione. Già Proust sapeva che

da un certo momento in poi dobbiamo accogliere tutti i nostri parenti giunti da così lontano e radunatisi intorno a noi8.

E sapeva anche che

La natura sembra in grado di provocare ormai malattie abbastanza brevi. Ma la medicina si è assunta il compito di prolungarle. I farmaci, la remissione che essi procurano, il malessere che, interrompendone l’assunzione, fanno rinascere, compongono un simulacro di malattia che l’abitudine dei pazienti finisce per rendere stabile, per stilizzare […]. È stupefacente che la medicina, quasi uguagliando la natura, possa obbligarci a stare a letto, a continuare, pena la morte, l’uso di un medicamento. Da quel momento la malattia, innestata artificialmente, ha messo radici, è diventata una malattia secondaria ma vera, con la sola differenza che le malattie naturali guariscono, quelle prodotte dalla medicina mai, perché essa ignora il segreto della guarigione9.

Il segreto della guarigione sta quasi sempre in noi stessi, fosse solo perché non si deve guarire dalla morte, ma sempre da una qualche malattia, il che sposta il problema. La vecchia distinzione tra qualità e quantità della vita non trova più senso in una medicina che voglia presentarsi come meramente scientifica e calcolante, giacché in questo caso si dà solo quantità. I profeti-guaritori del VI secolo a. C., i cosiddetti Iatromanti, guarivano e facevano guarire assumendo o facendo assumere uno stato simile alla catalessi o al letargo. Era lo sprofondare dentro se stessi che faceva guarire. Il tentativo di sprofondare, di interrarsi, conserva una matrice che ha a che fare col regno dei morti e con Apollo (come ne ha a che fare tutta l’arte medica). La ripresa di questi temi non è per nulla anacronistica, almeno finché si tenti di recuperare il “panismo”, l’olismo di questo tipo di medicina. Anacronistico è piuttosto un approccio che per necessità calcolante esclude la narrazione e la memoria, ossia il tempo.

Note
1. J. Bruner, La fabbrica delle storie. Diritto, letteratura, vita, Laterza, Roma-Bari 2006, pag. 117.
2. Ivi, pag. 118.
3. Ivi, pag. 119.
4. Ivi, pagg. 119-120.
5. Riguardo queste “placche” cutanee «Giuseppe Calligaris […] era riuscito a dimostrare […] che il nostro tegumento è la sede di un numero enorme di “placche”, “campi”, “bande” e “linee iperestetiche”, la cui attivazione produce la comparsa di riproducibili interazioni fra cute, organi e manifestazioni psichiche»; V. Di Spazio, Il meridiano del tempo. Temporis Foramina Spinae, Associazione Culturale Acquarius, Palermo 2002, pagg. 9-10. Di Spazio è stato a Catania per tenere intense lezioni sia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
che presso la Scuola Superiore di Catania, in entrambi i casi all’interno di corsi del Prof. Alberto G. Biuso.
6. Ivi, pag. 10.
7. Ivi, pag. 24.
8. Proust, La prigioniera, BUR, Milano 1991, pag. 214.
Rimando a una mia analisi del testo apparsa nel forum Cybersofia.
9. Ivi, pag. 333. Tempo fa, Biuso scriveva in un articolo (“Materialismo ecclesiale“) su L’ombra d’Argo (rubrica di Girodivite) della medicina odierna (accostandola alla Chiesa cattolica) quanto segue:

La Chiesa cattolica si trova così in pieno accordo con gran parte della medicina contemporanea, il cui approccio “scientifico” – e cioè soltanto organicistico – alla corporeità si fonda proprio su una visione puramente strumentale e cosale di ciò che l’essere umano è. Per la medicina occidentale il corpo è infatti una cosa fra le altre che ci si illude, quindi, di poter dividere in parti, sezioni, organi, funzioni, che si crede di poter analizzare, diagnosticare e guarire in modo separato dall’intero. La medicina costruisce così per se stessa una corporeità frammentata, oggettivata e non vissuta. Difficilmente, quindi, compresa nella sua complessità e nella continuità fra salute e malattia. Gran parte della scienza medica e la dottrina morale cattolica sono costruite sulle schegge dell’umano, sui suoi brandelli invece che sulla interezza del corpo-tempo-mondo. L’attenzione estrema alla durata quantitativa dell’esistenza – l’accanimento terapeutico – costituisce l’inevitabile conseguenza della riduzione della corporeità all’organico e della chiusura alla qualità esistenziale del tempo vissuto.

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