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Penetrare l’oscurità

Per la presentazione di M. Sciotto, Un Carmelo Bene di meno. Discritture di «Nostra Signora dei Turchi» (Villaggio Maori Edizioni, Catania 2014) ― Villa Cosentino, Valverde (CT), 30 luglio 2015.

È la seconda volta che mi trovo qui davanti a voi, ormai abbiamo rotto il ghiaccio; ed è la terza volta che presento il libro di Marco (qui la prima, e qui la seconda). Dato che ormai ci conosciamo più o meno tutti, posso prendermi qualche confidenza in più rispetto alla volta scorsa e calcare la mano per tastare meglio il terreno su cui cadono le mie parole. Per vedere se è un terreno fecondo, quasi mi verrebbe da dire, dato il tema che tratterò. Due volte davanti a voi e la terza volta con Marco, dicevo; siamo al secondo e terzo appuntamento. Di solito arrivati a questo punto i preliminari non bastano più e si vuole giungere dritto al sodo. Dovrebbe essere così anche oggi, sperando di non trovarmi davanti una barriera impenetrabile, che è costituita dalla complessità di ciò di cui vorrei parlare.
Le altre due volte in cui ho presentato questo libro ho parlato della stessa cosa vista da due punti diversi, anzi tramite immagini e concetti speculari: il sesso e la morte. Che a ben guardare sono le due cose che più ci fanno sospirare nella vita. Oggi tratterò ancora una volta di entrambi, sesso e morte, in un’altra specificità che li accomuna: la penetrazione nell’oscurità.
Il libro di Marco comincia con un’avvertenza che risale alla proiezione, sul finire degli anni ’60, di Nostra Signora dei Turchi nella sua versione cinematografica. Tale avviso, grosso modo recitava: «La direzione del Cinema Gioiello, prega vivamente tutti coloro che non considerano il cinema come fatto espressivo svincolato dalla necessità di un racconto tradizionale, di astenersi dalla visione di Nostra Signora dei Turchi di Carmelo Bene».
Anche io, stasera, se non fosse scortese, vorrei pregare chi si aspetta un intervento tradizionale ad astenersi dall’ascolto, a non starmi a sentire. Ma dato che ormai siamo qua, mi paro il colpo e addebito le eventuali sconcezze che dirò al nefasto influsso di Carmelo Bene. E di Marco Sciotto, che titilla la mia sensualità e scatena involontariamente la mia lussuria.
Marco analizza le quattro versioni di Nostra Signora dei Turchi: romanzo, teatro, cinema e poi di nuovo teatro. L’analisi più lunga e approfondita del suo libro è dedicata al romanzo, che si apre e chiude con la presenza o l’assenza di questa fantasmatica donna di nome Flora. Giustamente Marco nota: «Con una fine, un addio, esordisce appunto anche il romanzo Nostra Signora dei Turchi. Meglio, con un addio già consumato e ormai risolto in un’assenza, potremmo dire: un’ingiunzione d’amore ad una tale Flora che non c’è. Che è andata via o che forse non c’è mai stata. Un’assenza doppia, se ancor prima dell’assenza di Flora è l’assenza del corpo ad essere, fin dalla prima frase, esplicitata». Questa donna, o sarebbe meglio dire questa immagine di donna, con le stesse parole dell’incipit ritorna alla fine del romanzo: «Non c’era nessuna Flora. Oppure s’è vestita e se n’è andata». Ma il romanzo di Bene – concediamoci di definirlo “romanzo” per comodità – è tutto costellato di nomi di fiori: Margherita è la donna che dovrebbe sostituire Flora; e poi camomille, gerani, gigli, solo per dirne alcuni, e comunque fiori in generale. Il “mal de’ fiori”, reso esplicito nell’opera poetica degli ultimi anni, era già racchiuso in nuce in questo romanzo. Tale presenza floreale denuncia quasi un passività o comunque un immobilismo, sebbene apparente: i fiori, apparentemente, non si muovono, subiscono impollinazione e fecondazione restandosene fermi. Godono del piacere dell’assoluta passività e immobilità. A guardare i fiori e la loro apparente immobilità c’è sempre molto da imparare. Lo sapeva benissimo il Marcel della Recherche, che all’inizio del quarto volume se ne sta a guardare i fiori «esposti nel cortile con la stessa ostinazione che si pone a far uscire le ragazze in età da marito». Mentre aspetta l’insetto utile alla fecondazione, scopre le tresche di altri due impollinatori – o impallinatori che dir si voglia –, ossia M. de Charlus e Jupien, che presto si chiuderanno in una stanzetta a scambiarsi i piaceri. Non a caso questo quarto volume titola Sodoma e Gomorra. E il narratore è sicuro che se l’insetto fosse venuto a portare il polline, «il nostro fiore femmina avrebbe leggermente inarcato i pistilli e per essere più agevolmente penetrato avrebbe impercettibilmente compiuto, come una giovincella ipocrita ma focosa, metà del percorso».
Facciamo un piccolo passo indietro e riportiamo una frase posta verso la fine del romanzo di Bene, dove oltre ai fiori compare un elemento fondamentale di tutta quest’opera: «Dormi, cambiamo i fiori. Se non fossi un palazzo mi crederebbero». Il palazzo a cui si fa riferimento è quello moresco di Otranto ed è l’immagine trasfigurata del protagonista stesso: come il palazzo è una costruzione senza senso, edificato nel ’900 in stile moresco, così il protagonista, come dice Marco, si sottrae allo stesso modo alla storia: «I flussi e i riflussi delle maree del tempo si mescolano e da essi sembra venir fuori quel “palazzo moresco”, costruito in riva al mare e attiguo all’abitazione del protagonista, palazzo che è un po’ il coprotagonista di Nostra Signora dei Turchi. Effetto di una sorta di cortocircuito storico-architettonico – costruito nel 1900 ma in stile moresco –, il palazzo diviene quasi causa scatenante degli altri cortocircuiti temporali del romanzo».
Ma noi siamo abbastanza smaliziati da capire bene cosa significhi l’immagine del palazzo, che evidentemente allude a qualcos’altro che alla semplice costruzione muratoria. Il palazzo è un edificio psichico — si badi bene, non psicologico. Lo psichico è una questione di immagine; lo psicologico è una sorta di storia dell’arte a uso liceale delle immagini psichiche, che si producono soprattutto nei sogni. E allora, l’immagine psichica del palazzo allude al non senso, ossia alla follia. C’è qualcosa di troppo, o di troppo poco nel palazzo: eliminato il superfluo del troppo o del troppo poco, otteniamo che l’unico inquilino dell’edificio è un folle, o quantomeno uno che alla pazzia aspira. La frase riguardo al palazzo potrebbe essere riscritta così: «Dormi, cambiamo i fiori. Se non fossi un pazzo mi crederebbero».
Il retroscena – ossia la parte più interessante – delle parole è tutto nei giochi a cui rimandano, nella trama di calembour possibili, nelle altre parole a cui fanno subito pensare. Il palazzo è un pazzo. Questa è un’immagine psichica. Il palazzo è una stortura perché è in qualche modo falso: non si può costruire un palazzo moresco nel XX secolo senza che l’intero atto si muti in falsità. È un falso storico. Ma del resto, verrebbe da dire che la storia è tutta una serie di falsità in successione. Ogni evento è un falso storico. Come allo stesso modo nel romanzo di Bene non esiste nulla di vero. Quando il protagonista vuol mettersi accanto agli altri martiri di Otranto per riprendere «il suo destino» di martire, fruga «in una cassaccia» e ne trae «manciate e manciate di gioielli falsi». Se pure le pietre sono false, cosa può mai esserci di vero in questo romanzo?
La pazzia consiste nel prendere per vero qualcosa di falso, o viceversa; anzi più precisamente nel prendere per reale qualcosa di irreale, o viceversa. (Certo, quando tutto questo non sia istituzionalizzato; allora la pazzia si chiama politica, o religione.) In sostanza: il palazzo c’è o non c’è? È reale o irreale? Ma ancora, con l’aggiustamento psichico di prima: la pazzia è reale o irreale? Il pazzo c’è o non c’è? E se c’è, è pazzo o non è pazzo?
Nostra Signora dei Turchi è tutto in bilico tra la presenza che diviene assenza; e a sua volta questa assenza che diviene presenza. Assenza della presenza e presenza dell’assenza. Ma anche, una volta che ci sia la presenza, l’assenza viene a configurarsi come assenza dell’assenza. Da questo punto di vista, il palazzo è ancora emblematico, con il suo esserci che tende al non esserci. Perché il palazzo è il protagonista, in tutti i sensi. È un’immagine psichica – ribadisco, non psicologica – del protagonista. C’è per non esserci, c’è perché non c’è, come i sogni. Se il palazzo – o il pazzo che è e non è pazzo – è il protagonista, allora risulta più chiaro il fatto che esso è abitato, visitato verrebbe da dire, dalla donna amata. Come dice Marco, infatti: «All’arrivo della fanciulla, i due si uniranno in un amplesso in cucina che proseguirà poi nella camera di lui, per suggellare l’unione nella visione simultanea del palazzo moresco che intanto verrà presentato esplicitamente come l’abitazione di lei: un’assenza che abita un’altra assenza». Il palazzo è abitato dall’amata, che anch’essa c’è e non c’è. L’amata, che sia la Flora che incornicia il romanzo, o che sia la Margherita simulacro di quella flora (e in fondo non è la margherita il fiore più comune, quello da sfogliare per il m’ama non m’ama? E una margherita non vale un’altra?), ecco, l’amata è l’inquilina del palazzo, l’immagine psichica del pazzo, colei che visita, che appare come una santa. E il palazzo, come Flora, come il protagonista stesso, alla fine sarà evanescente, disormeggerà, fluttuerà e svanirà via. V’è un plesso identitario tra il protagonista, il palazzo e le donne o la donna: sono tutte immagini psichiche. Non c’è nulla di reale, eppure tutto è reale. Non c’è nulla di presente, eppure tutto è presente.
Flora incornicia tutto il romanzo e ne preserva l’accesso, da ambo le parti. Come una membrana protettiva, come un imene. Flora c’era e non c’è, si deve vestire e andarsene. O forse non c’è stata mai. In ogni caso è in atto una deflorazione: una Flora che non c’è più è una Flora deflorata. O Flora non c’è stata mai e questo è il romanzo dell’impossibilità della deflorazione? Come del resto, il palazzo non c’è, il protagonista non è pazzo, non è un cretino che vede la madonna, come si dice nel libro. Nell’impossibilità della follia è racchiusa l’impossibilità di incontrare l’altro da sé – in questo caso Flora – e di penetrarlo. Penetrare l’altro è sempre un salto nel buio; o tanto spesso e più precisamente è un passo nel vuoto. Incontrare l’altro da sé è penetrare nell’oscurità, come con il sesso, come con la morte, che costituiscono l’aspetto fisico e metafisico dell’incontro con l’altro da sé. Nel caso del sesso, è un altro a cui si vuol tornare spesso e volentieri; nel caso della morte, da quell’incontro non si torna più.
Nostra Signora dei Turchi, allora, è il romanzo dell’impossibilità di uscire da sé per andare incontro all’altro. Del resto la questione è abbastanza esplicita, come notavo anche la presentazione scorsa: «Andare incontro è come andare in cielo», ossia incontrare l’altro da sé è come andare in paradiso nell’estasi dell’orgasmo, oppure come morire.
Un’ultima considerazione prima delle mie solite conclusioni. La questione imenea è chiarissima non appena si guardi a quel poco che ci è rimasto delle due versioni teatrali di Nostra Signora dei Turchi. Marco ci informa che le testimonianze sono scarse e che però v’è un elemento caratteristico delle versioni teatrali ossia «la frapposizione tra la scena e gli spettatori di pannelli costituiti da vetrate arabeggianti, quelli che Piergiorgio Giacchè, in un incontro-intervista che abbiamo avuto a Parigi nel 2010, ha definito “una quarta parete chiusa, un vetro che è un filtro cinematografico al contrario; come se si dicesse ‘di là stiamo facendo un film, checché se ne veda da questa parte’”». La quarta parete, per chi non fosse avvezzo ai termini teatrali, sarebbe questa sorta di muro immaginario posto tra la scena e gli spettatori. Un po’ è quello che avviene anche in occasioni come quella di questa sera: noi di qua seduti a parlare e voi di là seduti ad ascoltare, come se ci fosse un muro a separarci. Ma non preoccupatevi, alla fine ci sarà spazio per gli interventi e vi consentiremo di penetrarlo. Uno alla volta, mi raccomando. Come che sia, riguardo alla versione teatrale di Nostra Signora dei Turchi, questa quarta parete chiusa e costruita assurge al ruolo di imene. Per accedere al vuoto che è sulla scena, bisogna penetrare, deflorare, profanare il teatro. Allora sì, vi sarà spargimento di sangue, ma almeno si godrà fino in fondo.
Andiamo a qualche conclusione che ne possiamo trarre:

  • il sesso è metafora di ogni cosa; o anche, ogni cosa è una metafora sessuale;
  • disfare il teatro per disfare la cultura, diceva Bene; sì, come si disfa un letto facendoci all’amore;
  • la quarta parete è l’imene del teatro;
  • abbattere la quarta parete: Pirandello come sverginatore seriale;
  • gli spettatori, questi maniaci voyeristi incapaci di penetrazione;
  • e chissà se il sogno segreto di ogni uomo di teatro, come di ogni donna, in fondo non sia rifarsi l’imene come ci si rifà il trucco.