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«Primeval Man» del Duca di Argyll

Breve premessa alla traduzione
Tra le vaste ombre proiettate dall’apparizione de L’origine delle specie, ombre che a volte vengono considerate come vacche nere nella notte, si può quantomeno tentare di mettere sugli altari la peregrina opera di George Douglas Campbell, VIII Duca di Argyll.
Egli, in un’epoca di fervori positivistici, non solo seppe riconoscere limiti e dogmatismi di tale corrente, ma dalla serrata critica che gli oppose ricavò un pensiero profondo ed unitario; anzi, profondo perché unitario. L’opera di cui qui propongo una parziale traduzione è del 1868, quasi dieci anni dopo l’uscita dell’opera già citata di Darwin. Il Duca si pone, nei confronti di quest’opera, con apertura; difatti la sua non è una critica né religiosa né scientifica; si tratta infatti di una critica del tutto filosofica, in quanto il metodo che prevale è quello genealogico e volto a scovare il senso dei meri dati fisiologici ed ancor più anatomici.
Qui di seguito, dunque, alcuni passi di un libro che, ad avviso dei sacerdoti di questo tempio dell’ombra, andrebbe tradotto per intero. Le pagine indicate tra parentesi quadre fanno riferimento all’edizione dell’University of Michigan Library, 2006. Un’altra edizione – digitale, però – è disponibile presso Hathi Trust Digital Library.

PRIMEVAL MAN
An Examination of Some Recent Speculations,
by the Duke of Argyll

L’UOMO PRIMITIVO
Una esaminazione di alcune recenti speculazioni,
Duca di Argyll

PARTE I.
Introduzione

[20] Noi non possiamo perfino pensare la nostra struttura corporea senza affrontare a un tempo tutti i fatti che connettono il fenomeno della mente con la struttura e la condizione degli organi materiali. […]
[21] Qualche volta, sebbene forse non così [22] spesso come comunemente si suppone, gli uomini sono stati tenuti alla larga da particolari branche della ricerca fisica, nel supposto interesse della religione; ma, costantemente ed abitualmente, gli uomini sono messi in guardia da alcune branche di ricerca, sia fisiche che psicologiche, negli interessi – abbastanza reali – della filosofia positiva! «Qualunque cosa», dice Mr. Lewes, «è inaccessibile alla ragione, dovrebbe essere rigorosamente interdetta alla ricerca». Qui abbiamo la vera eco delle vecchie interdizioni sacerdotali. Chi è per definire a priori cos’è, e cosa non è, “inaccessibile alla ragione”? Dovremmo prendere dai preti di questa nuova filosofia una definizione per fede? Essi ci dicono che tutte le prove della mente nell’ordine dell’universo, tutte le evidenze di fine, tutte le concezioni di [23] un piano o di un disegno, nelle storie della Creazione, sono il mero prodotto di speciali “infermità” dell’intelletto umano. In opposizione a questi tentativi [fatti] per limitare arbitrariamente i confini della conoscenza, manteniamo il principio secondo il quale non possiamo mai sapere certamente cosa è “inaccessibile alla ragione” fino a che la via di accesso sia stata provata. Nell’alto interesse della verità, dobbiamo resistere a qualunque interdetto contro la ricerca. La forte supposizione è che ogni filosofia che promani un’interdizione debba avere una ragione per temere la ricerca.
Su questi principi si potrebbe affermare generalmente che tutti i soggetti sono legittimati soggetti di ragione in proporzione a come essi sono [24] accessibili alla ricerca; e che il grado nel quale qualche dato soggetto è accessibile alla ricerca non può essere conosciuto fino a che la ricerca non sia stata tentata.
Entro certi limiti non è in discussione che la primaria condizione dell’umanità sia accessibile alla ragione. […]
Non è stato, comunque, sufficientemente osservato che la domanda circa la primitiva condizione dell’umanità si risolve in tre [25] separate questioni, – cioè a dire, tre questioni che, sebbene connesse con ciascun altra, possono essere, e invero devono essere, trattate separatamente:
1. L’origine dell’uomo considerato semplicemente come una specie, – cioè a dire, il metodo della sua creazione o introduzione nel mondo.
2. L’antichità dell’uomo, o il tempo nella storia geologica e preparazione del globo nel quale questa creazione o introduzione ebbe luogo.
3. La sua condizione mentale, morale ed intellettuale quando fu inizialmente creato.
[26] […] Il primo uomo, in qualunque modo creato, avrebbe dovuto avere una speciale conoscenza trasmessa a lui così bene come una speciale organizzazione materiale. Speciali poteri di acquisire conoscenza certamente deve averli avuti, giacché sappiamo che questi sono inseparabilmente connessi con l’organizzazione che lo fece “degno di essere chiamato uomo”. Le due questioni, perciò, dell’origine dell’uomo e della sua condizione primitiva sono chiaramente separabili. In modo simile, rispetto all’antichità, la questione del tempo non ha una connessione necessaria [27] nemmeno con la sua origine o la sua condizione primitiva. […]
[30] Ma implicitamente, se non esplicitamente, la Teoria-del-Selvaggio [secondo la quale l’uomo era originariamente in uno stato di assoluta barbarie; ndr.] e le ragioni in suo supporto assumono che la civiltà consiste principalmente, se non esclusivamente, nella conoscenza delle arti. La conoscenza, per esempio, o l’ignoranza dell’uso dei metalli sono, per quello che possiamo vedere, caratteristiche sulle quali è posta molta enfasi. Ora, riguardo a questo punto, come Whately dice giustamente, la narrazione della Genesi afferma distintamente che questo tipo di conoscenza non appartiene all’umanità dall’inizio, ma è stata il frutto di una successiva scoperta, attraverso l’ordinaria azione di quelle doti mentali con le quali l’uomo era stato dotato alla sua creazione. […]
[32] […] Ma, in ogni caso, è perfettamente plausibile che al di là della conoscenza delle arti più semplici che era necessaria per la sussistenza della vita, la condizione dell’uomo primitivo potrebbe essere stata una condizione di mera infanzia.

PARTE II.
L’origine dell’uomo.

[38] La razza umana non ha più conoscenza o reminiscenza della propria origine di quanto un bambino ne abbia della sua nascita. Ma un bambino assorbe con il latte materno qualche conoscenza della relazione nella quale è con i suoi genitori, e crescendo apprende che altri bambini sono nati intorno a lui. Egli vede una generazione andare ed un’altra venire, cosicché prima che l’infanzia finisca le idee di nascita [39] e di morte sono familiari allo stesso modo. Qualsiasi senso di mistero che, in questo primo albeggiare della riflessione, potrebbe essere attribuito a ciascuna di queste idee è presto perduto nella familiare esperienza del mondo. La stessa esperienza si estende agli animali inferiori – essi, pure, nascono e muoiono. Ma nessuna esperienza è mai giunta a gettare una luce sull’origine della nostra razza o di qualcun’altra. Alcune varietà di forme sono prodotte nel caso di pochi animali, dall’addomesticamento e da una costante cura nella selezione di peculiarità trasmissibili ai cuccioli. Ma queste variazioni sono entro certi limiti; e dovunque le cure umane diminuiscono o sono abbandonate, le vecchie forme ritornano e i caratteri selezionati svaniscono. La creazione di nuove forme dall’unione di [40] specie differenti, perfino quando sono in una stretta relazione naturale ciascuna con l’altra, è assolutamente vietato dalla sentenza di sterilità che la Natura pronuncia ed impone sulla prole ibrida. E così ne viene che l’uomo non ha mai veduto l’origine di alcuna specie. La creazione dalla nascita è l’unico tipo di creazione che egli abbia mai visto; e da questo tipo di creazione non ha mai visto discendere nessuna nuova specie. Eppure egli sa (perché la paleontologia lo ha rivelato in maniera certa) che l’introduzione di nuove specie è stata un’opera andata avanti costantemente e continuamente durante ampi ma sconosciuti periodi di tempo. L’intero volto della natura animata è stato mutato, non una volta, bensì frequentemente; per la maggior parte non d’improvviso, forse non [41] d’improvviso in nessun caso, ma lentamente e gradualmente, e tuttavia completamente. Una volta che questo fatto è chiaramente compreso – una volta che diveniamo familiari con l’idea che la Creazione ha avuto una storia, siamo inevitabilmente condotti alla conclusione che la Creazione ha avuto anche un metodo. E dunque sorge l’ulteriore questione: qual è stato questo metodo? È assolutamente naturale che coloro che hanno qualche speranza di risolvere tale questione afferrino la supposizione che sembra la più a portata di mano; e la supposizione più a portata di mano è che l’azione con la quale sono create nuove specie è la stessa azione con cui nascono nuovi individui. La difficoltà di concepirne qualche altra costringe gli uomini, se vogliono far congetture fino in fondo, a congetturare su questo fondamento. Tale è l’origine e la genesi di tutte [42] le teorie dello sviluppo, delle quali l’ipotesi di Mr. Darwin è solo l’ultima forma. In sé non è in contraddizione con gli argomenti teisti, o con la credenza nell’azione definitiva e nel potere direttivo di una Mente Creatrice. Questo è chiaro, giacché non abbiamo mai pensato che ci sia alcuna difficoltà a conciliare quella credenza con la nostra conoscenza delle leggi ordinarie della riproduzione animale e vegetale. Queste leggi potrebbero essere correttamente, e possono solo essere adeguatamente descritte nel linguaggio della religione e della teologia. «Colui che è il solo autore e creatore di tutte le cose», dice l’attuale vescovo di Salisbury, «non dà l’essere e la vita con atti separati di creazione a quelle creature che stanno per essere generate, ma impiega le sue creature viventi così da dare effetto alla sua [43] volontà ed al suo desiderio, ed essere come suoi agenti i mezzi di una vita comunicante». Lo stesso linguaggio potrebbe essere applicato, senza alterare alcuna parola, all’origine delle specie, se fosse vero che i nuovi tipi tanto quanto i nuovi individui sono creati con l’essere nati. La verità è che l’argomento che così spesso è stato impiegato per elevare la nostra concezione della saggezza nascosta in cause secondarie, è un argomento che ottiene vigore e forza crescenti in proporzione al numero ed all’involuzione di quelle cause ed all’estensione e allo scopo dei loro effetti. Se esso non diminuisce, ma soltanto aumenta la meraviglia della vita organica, che è stata così concepita come capace di propagare se stessa, nemmeno [44] diminuirà quella meraviglia, ma piuttosto la aumenterà in un grado infinito, che gli organismi potrebbero essere dotati con l’ancora più meraviglioso potere di sviluppare forme di vita altre e superiori a loro stessi. […]
[46] […] Guardando al presente, gli organismi sono noti per la riproduzione della vita, ma sempre per una vita che è simile a se stessi. E se questa somiglianza ammette gradi di differenza, il margine di variazione non è noto per essere abbastanza ampio per la creazione di nuove specie. Questo, pure, è degno di nota: che questo margine di variazione come è sempre esistito tra la prole di stessi genitori diviene via via più piccolo in proporzione a quanto saliamo nella scala della vita organica. Che qualche organismo, perciò, possa mai produrne un altro che vari da se stesso in qualche carattere veramente specifico, è un’assunzione non giustificata da nessun fatto conosciuto. Nessun organismo [47] è stato mai visto esercitare adesso un tale potere. Ci sono alcune indicazioni le quali tendono a mostrare che tutti gli organismi sono stati ugualmente incapaci di modificazioni sin dai più antichi monumenti dell’uomo. Non ci sono prove che un qualche organismo abbia mai adempiuto a tale funzione in qualche tempo. Si è fatto ricorso a tale ipotesi a causa della difficoltà di concepire un metodo di creazione eccetto la creazione dalla nascita; ma questo non è un adeguato fondamento per una teoria scientifica. Sarebbe bene, per quelli che speculano su questo argomento, ricordare che ogniqualvolta una nuova specie o una nuova classe di animale è venuta ad essere, deve essere successo qualcosa che non è “nell’ordinario corso della natura”, così come lo conosciamo. […]
[50] Il professore Huxley, d’altro canto, si è assunto il compito di provare che le differenze anatomiche tra la struttura umana e la struttura del gorilla o dello scimpanzè non siano tali, nella tipologia e nel grado, da giustificare questa ampia distinzione. Ma egli limita specialmente questa conclusione alle differenze fisiologiche e confessa che, se definendo l’uomo teniamo in conto il fenomeno della mente, c’è tra l’uomo e quelle bestie che sono più vicine a lui anatomicamente una differenza così grande che non può essere misurata – un “abisso incolmabile” – “una divergenza incommensurabile” e “praticamente infinita”. Ma quest’ultima conclusione è veramente incompatibile con la prima. C’è una [51] connessione inseparabile tra il fenomeno della mente e il fenomeno della corporeità. Essi devono essere presi insieme ed interpretati insieme. La struttura di ogni creatura è correlata con le funzioni che le sue diverse parti sono adibite a compiere; e il carattere mentale, le disposizioni e gli istinti della creatura sono, nuovamente, strettamente correlati con queste funzioni. Dobbiamo accettare dagli anatomisti tutti i fatti che l’anatomia può insegnare; ma il valore da assegnare a questi fatti è una questione molto differente. Tutta la classificazione è ideale e dipende dal valore relativo che assegniamo a fatti che in se stessi sono incontestabili. Sulla questione del valore comparativo dei fatti anatomici abbiamo altri fatti a cui attenerci che non [52] appartengono alla fisiologia. La Natura è la sua stessa interprete e la sua evidenza è chiara. Qualunque potrebbe essere la differenza anatomica tra l’uomo e il gorilla, questa differenza è l’equivalente, nell’organizzazione fisica, dell’intera differenza mentale tra un gorilla e un uomo. Questa è la misura che la Natura ha istituito sul tipo e il grado di divergenza che separa queste due forme materiali. Le altre misure di valore che potrebbero essere istituite su questa divergenza devono essere fondate su una selezione arbitraria e parziale tra i fatti di cui una classificazione tutta valida deve tenere conto. […]
[55] […] Nessun tipo di difesa può essere offerto al sistema che raggruppa l’uomo nello stesso ordine degli scimpanzè o degli orangutango, sulla mera base che gli arti di questi animali terminano con organi che sono “veri piedi e vere mani”; o perché hanno lo stesso numero di denti; o perché esiste la stessa divisione primaria nella struttura del cervello. [56] La differenza tra la mano di una scimmia e la mano di un uomo potrebbe sembrare piccola quando sono entrambe poste su un tavolo di dissezione; ma in questa differenza, qualunque essa sia, giace l’intera differenza tra un organo limitato all’arrampicarsi sugli alberi o alla raccolta di frutta e un organo che è così correlato al genio inventivo dell’uomo, per cui con il suo aiuto la terra è soppesata e la distanza del sole misurata.[…]
[57] […] Nondimeno, il significato attribuito ai fatti di Natura circa la differenza di undici pollici cubi tra [il cervello] del gorilla e dell’uomo, è la differenza tra un bruto irrazionale, confinato in qualche clima e in qualche area limitata [58] del globo, – che nessuna condizione esterna può modificare o migliorare, – e un essere egualmente adattato all’intero mondo abitabile, con poteri, quantunque non sviluppati, di comparazione, di riflessione, di giudizio, di ragione, con un senso del giusto e dello sbagliato, – e con tutto ciò capace di acquisizioni accumulate e perciò di avanzamento indefinito. Non è corretto affermare che queste caratteristiche siano completamente separate – separate da un “abisso incolmabile” – dalla sua organizzazione fisica. Tra queste peculiarità della mente e le speciali peculiarità della sua struttura c’è un adattamento così buono, e così ovvio al senso e alla ragione, come c’è tra la feroce disposizione di una tigre ed i suoi possenti artigli, o tra il carattere retrattile di questi e la sua andatura soffice e [59] furtiva. […] Il carattere prensile dei piedi o della coda nelle scimmie è una giusta ed adeguata espressione della loro abitudine arboricola; ed i piccoli e semplici cervelli dei marsupiali (canguri, etc.) sono strettamente correlati [60] con la loro bassa intelligenza. Non potremmo capire – e non lo facciamo – come questi fenomeni della materia e della mente sono così dipendenti ciascuno dall’altro; ma a ciò che vediamo questa dipendenza è universale e le distinzioni che noi troviamo nella struttura anatomica hanno il loro valore corroborato e confermato da una stretta e inseparabile corrispondenza di istinto ed intelligenza. L’uomo non è un’eccezione, in ogni caso, a questa legge universale; e un sistema di classificazione che assegni un valore alle sue peculiarità anatomiche, separando con un abisso inoltrepassabile il suo corpo e la sua mente, è un sistema del tutto incompatibile con la filosofia. […]
[65] In proporzione a come la differenza tra l’uomo e gli animali inferiori è opportunamente valutata alla luce della natura, ebbene, nella stessa proporzione crescerà la difficoltà di concepire come l’abisso possa essere oltrepassato da qualche processo di trasmutazione o sviluppo.
Questa difficoltà è inoltre accresciuta se volgiamo l’attenzione per un momento alla direzione nella quale la struttura umana diverge dalla [66] struttura dei bruti. Essa diverge nella direzione di una grande impotenza e debolezza fisica. Cioè a dire, è una divergenza che più delle altre è impossibile ascrivere alla mera “selezione naturale”. La condizione spoglia e priva di protezione del corpo umano, la sua comparativa lentezza, l’assenza di denti adatti per afferrare o difendersi, la stessa mancanza di potenza, per gli stessi scopi, nelle mani e nelle dita, la smussatura del senso dell’olfatto, tale da renderlo inutilizzabile per scovare una preda nascosta, – tutte queste sono caratteristiche che stanno in stretta ed armoniosa relazione con i poteri mentali dell’uomo. Ma, separate da questi ultimi, tali caratteristiche lo metterebbero in un immenso svantaggio nella lotta per l’esistenza. Questa, perciò, [67] non è la direzione nella quale le cieche forze della selezione naturale potrebbero mai operare. La creatura “non degna di essere chiamata uomo”, alla quale Sir J. Lubbock si è riferito come progenitrice dell’uomo, era, ex hypothesi, deficiente di quelle capacità mentali che adesso distinguono le razze più basse dalla umana. Per esistere del tutto, questa creatura deve essere stata, nella sua struttura, più animale; deve aver avuto forze e organi corporali più come quelli delle bestie. Il continuo miglioramento e perfezionamento di queste sarebbe la direzione della variazione più favorevole alla continuità delle specie. Queste non poterono essere modificate nella direzione di una grande debolezza senza un’inevitabile distruzione, fino a che prima non fosse stata stabilita, con il dono della ragione e di capacità mentali di inventiva, [68] un’adeguata preparazione per il cambiamento. La perdita della velocità o della capacità di arrampicarsi, che è racchiusa negli avambracci divenuti inutilizzabile per la locomozione, non potevano avvenire con sicurezza fino a che il cervello non fosse pronto per dirigere la mano. Il piede non poteva permettersi di separarsi dal suo carattere prono e prensile fino a che i poteri della ragione e della riflessione non hanno provveduto a giustificare, se non a spiegare, la posizione eretta e lo sguardo diretto verso l’alto. E così via, attraverso tutte le innumerabili modificazioni di forma che sono le peculiarità dell’uomo e che sono in un’indissolubile unione con le sua capacità di pensiero. Il più basso grado di intelligenza che è posseduto adesso dal più infimo selvaggio è più che sufficiente a compensarlo [69] della debolezza della sua struttura o di metterlo in grado di continuare con successo la lotta per l’esistenza. […]
[70] Ma può essere detto con certezza che una diminuzione molto piccola della capacità mentale al di sotto di quella di un selvaggio australiano renderebbe la struttura caratteristica dell’uomo incompatibile con la continuazione della sua esistenza in molti, se non in tutti, i luoghi dove egli attualmente si trova. Se questa struttura fosse appena più bestiale, potrebbe essere meglio adatta per un’esistenza bestiale; ma è impossibile concepire come essa possa mai essere emersa da quell’esistenza in virtù della selezione naturale. L’uomo deve aver avuto proporzioni mentali umane prima che si sia potuto permettere di perdere proporzioni corporee bestiali. Se il cambiamento nel potere mentale [71] avvenne simultaneamente con il cambiamento nell’organizzazione fisica, allora è tutto ciò che possiamo mai conoscere o comprendere della nuova creazione. […]

PARTE III.
L’antichità dell’uomo.

[113] […] L’evidenza della geologia è sempre stata che tra tutte le creature che sono state formate in successione per vivere su questa terra, e per goderla, l’uomo è l’ultimo nato. Questo fatto importante è ancora la fondamentale verità nella storia della creazione: questa storia, come la geologia l’ha rivelata, è stata una storia di successive creazioni, e di successive distruzioni, – vecchie forme di vita perirono, e nuove forme apparirono, cosicché l’intero volto della natura è stato parecchie volte rinnovato. Ma fino a che, molto di recente, è stato supposto che [114] questi grandi cicli di cambiamento sono stati finalmente compiuti prima che l’uomo apparisse. E riguardo alle recenti creazioni questa supposizione è ancora supportata dalla testimonianza della scienza. Per quanto possiamo saperne, nessuna nuova forma di vita è stata creata da quando la più alta forma è stata fatta; ma adesso si palesa che, da quell’evento, tante vecchie forme sono morte. I cicli della creazione sono stati chiusi, ma non i cicli della distruzione. In se stesso, si potrebbe supporre che questo fatto abbia poco a che fare con la questione del tempo. L’estinzione di alcuni animali noti in particolari zone del globo, come per esempio nei nostri stessi paesi, ha avuto luogo entro il periodo della storia e alcune poche specie di uccelli senza ali, come il dodo e l’alca impenne, sono [115] state annientate in tempi molto recenti; ma queste sono state estinzioni causate dall’azione dell’uomo. Ciò che ora è provato è che un intero gruppo o un’intera fauna di grandi quadrupedi è totalmente perita dalla comparsa dell’uomo; e le cause di questo annientamento sembrano essere state dello stesso tipo delle cause che in tutte le ere passate hanno prodotto simili risultati – vale a dire, grandi cambiamenti climatici del globo e grandi movimenti che hanno avuto effetto sulla configurazione della sua superficie. […]

PARTE IV
La condizione primitiva dell’uomo

[129] Come la questione dell’origine dell’uomo è differente dalla questione della sua antichità, e come l’antichità dell’uomo è una questione differente dalla sua condizione primitiva, così, nuovamente, l’ultima questione include entro se stessa alcune differenti materie di indagine. C’è la prima questione: quale coscienza aveva l’uomo primitivo dell’obbligazione morale e quale comunione con il suo creatore? Dopo c’è la questione: quali erano i suoi innati poteri intellettuali o [130] di comprensione? E, in terzo luogo, c’è la questione: qual era la sua condizione rispetto alla conoscenza, sia come risultato di intuizione o come risultato di insegnamento? […] La distinzione tra il possesso di facoltà capaci di acquisire conoscenza e il possesso della conoscenza attualmente acquisita è una distinzione fondamentale. Non meno fondamentale è la distinzione tra una creatura che sia moralmente buona ma intellettualmente ignorante [131] e una creatura che sia ignorante e viziosa. Sir J. Lubbock parla dell’uomo primitivo come fosse stato in una condizione di assoluta barbarie; ma nessuno, parlando filosoficamente, ha diritto di usare termini quali “barbarie” e “civiltà” senza alcuna definizione del loro significato. Quali erano quelle facoltà che resero la prima creatura che le possedette “degna di essere chiamata uomo”? Una mente capace di ragione, disposta alla ragione, e capace di acquisire, accumulare e trasmettere conoscenza, – questa è l’attributo distintivo dell’uomo. Il primo essere “degno di essere così chiamato” deve avere avuto tale mente. […]
[133] Tracce o resti di barbarie, propriamente dette, cioè tracce di costumi selvaggi o immorali negli usi delle nazioni civili, potrebbero essere un’indicazione del fatto che quelle nazioni o le razze da cui esse discendono siano passate attraverso uno stadio di barbarie; ma comunque non consente la presunzione che la barbarie fosse la condizione primitiva dell’uomo, non più di quanto tracce del feudalesimo nelle leggi dell’Europa moderna provino che i principi feudali siano nati con la razza umana. Tutti questi costumi potrebbero [134] essere stati e, come alcuni pensano, probabilmente sono stati non primitivi ma medievali, cioè a dire il risultato del tempo e dello sviluppo, e questo sviluppo uno sviluppo di corruzione. Presumere che essi fossero originari o che essi erano perfino meglio o meno barbari di altri che li precedettero è presupporre l’intera questione in discussione. […]
[138] […] Se con civilizzazione intendiamo una conoscenza delle arti industriali, la dottrina secondo la quale l’uomo non ha e non avrebbe mai potuto, “senza aiuto”, innalzare se stesso di un passo da un’invenzione meccanica a un’altra, è una dottrina che include due asserzioni separate che richiedono di essere esaminate separatamente. Di queste due asserzioni, la prima, cioè che i selvaggi non hanno mai “innalzato se stessi”, è un’asserzione che, nella sua vera natura, è difficile se non impossibile da provare. […]
[143] […] Qui è importante osservare che in proporzione diretta all’assumere che la condizione primitiva dell’uomo sia stata tale da richiedere un insegnamento elementare, nella stessa proporzione dobbiamo supporre che la sua condizione primitiva rispetto all’intelletto era bassa e debole. Di conseguenza, Whately assume come un [144] fatto indiscutibile che l’uomo non ha istinti come quelli che mettono in grado gli animali inferiori di costruire nidi, celle e tane. La mia credenza è che questa sia un’assunzione che non solo non è provata, ma che con ogni probabilità è falsa. Come Whately stesso ammette, “l’uomo è un animale” tanto quanto le creature che stanno sotto di lui. È vero che non ha istinti dello stesso tipo di quelli che hanno essi; ma questa non è una prova, in ogni caso, che non abbia, e che non abbia originariamente, istinti che stiano in stretta correlazione con le peculiarità del sua superiore organizzazione fisica. Questo è un settore di ricerca che è stato troppo a lungo negletto dai fisiologi e dai metafisici. Ci sono alcuni fatti che vanno lontano nel provare che l’uomo ha, e [145] deve sempre aver avuto, istinti che offrono tutto ciò che è richiesto come base per avanzare nella arti meccaniche. Poche persone hanno riflettuto su quanto è implicato negli atti più puramente istintivi, quali scagliare una pietra, o maneggiare un bastone come arma di offesa. Entrambi questi semplici atti implicano il grande principio dell’uso di strumenti artificiali. Persino nella forma più rudimentale l’uso di un utensile modellato per uno scopo speciale è assolutamente peculiare dell’uomo e sorge necessariamente ed istintivamente dalla struttura del suo corpo. […]
[148] L’uomo che per primo lanciò una pietra e la scagliò praticò un’arte che nessuno degli animali inferiori è capace di praticare. Questo è un atto che con tutte le probabilità è così strettamente istintivo e naturale per l’uomo come per un cane mordere o per un toro caricare. Eppure questo atto implica l’idea e la conoscenza della forza propulsiva e delle arti con le quali a questa forza può essere data una direzione. Maneggiare un bastone è, con tutte le probabilità, egualmente un atto di intuizione primitiva e da questo al lanciare un bastone e all’uso del giavellotto c’è una transizione facile e naturale. Semplici come sono questi atti, implicano poteri sia fisici [149] che mentali capaci di tutti quegli sviluppi che vediamo nelle arti industriali più avanzate. Questi atti implicano l’idea istintiva della costanza delle cause naturali e la capacità di pensiero che dà agli uomini la convinzione che ciò che succede sotto date condizioni succederà sempre di nuovo sotto le stesse condizioni. Whately vuole intendere che l’uomo deve essere stato istruito da Dio su come lanciare una pietra, maneggiare un bastone, lanciare un giavellotto o costruire una capanna? E se è così, a che punto queste lezioni in arti meccaniche ebbero termine? Non è evidente che più perfetto supponiamo essere stato il primo uomo (rispetto almeno ai suoi poteri di pensiero, di osservazione e riflessione), meno [150] necessario è supporre che le poche e semplici arti necessarie per il sostentamento della sua vita gli furono comunicate in qualche altra forma rispetto ai poteri intuitivi di percezione e scoperta? […]
[156] Niente, nella storia naturale dell’uomo, può essere più certo che sia moralmente che intellettualmente e fisicamente, egli può decadere, e molto spesso è decaduto, da un livello più alto a uno più basso. Questo è vero dell’uomo sia collettivamente che individualmente – degli uomini e delle società di uomini. Alcune regioni del mondo sono disseminate di monumenti di civiltà che sono scomparse. Tribù rozze e barbare guardano con meraviglia i resti di templi dei quali non possono concepire lo scopo e di città che sono covi di bestie. Non è necessario supporre, come qualche volta è stato fatto, che ci sia una legge di decadenza che affligge le comunità, così certa nella sua opera come la legge che opera sulla struttura individuale. È sufficiente [157] notare il fatto indiscutibile che gli uomini sono soggetti a degrado e declino – e questo perfino nei riguardi della conoscenza e della pratica di quelle arti industriali dalle quali potrebbe dipendere l’esistenza di popolazioni numerose. Riguardo al carattere morale, la possibilità e il fatto del degrado non sono meno certi; è un risultato solo troppo comune e familiare, sia riguardo gli individui che le società di uomini. In verità, questo tipo di declino quasi sempre precede l’altro. I più alti elementi di civilizzazione dipendono dalle qualità della mente; è tramite la forza morale e intellettuale che sono ottenuti tutti i trionfi della civiltà. Quando questa forza declina, le forze di degrado stabiliscono la loro ascendenza, e la compiutezza con la quale hanno realizzato la loro opera è [158] una delle rimanenti meraviglie del mondo. […]
[161] […] Ora, quali sono i cambiamenti delle circostanze esterne che per prime, nel corso naturale delle cose, potrebbero aver portato un’influenza avversa in rapporto all’umanità? Qui abbiamo di nuovo una base ferma, perché conosciamo una grande causa che è sempre stata in opera e noi conosciamo i suoi effetti naturali e inevitabili. Questa causa è, semplicemente, la legge dell’accrescimento: è la conseguenza di quella legge per cui la popolazione sta sempre crescendo ai limiti della sussistenza. Quindi la necessità di migrazioni e la forza che ha spinto successive generazioni di uomini lontano e lontano, in cerchi sempre più ampi attorno agli originari centri della loro nascita. Allora, come [162] potrebbe sempre essere, le tribù più deboli che potrebbero essere guidate da un terreno che è divenuto troppo pieno e dato che le terre da cui partirono erano molto meno ospitali nel clima e nelle produzioni, la lotta per l’esistenza potrebbe essere sempre più dura. E così sempre succede nel corso naturale e necessario delle cose che le razze che sono condotte più lontano potrebbero essere le più rozze – le più totalmente occupate nel perseguire una mera esistenza animale. […]
[174] Se [175] con le poche risorse del luogo per i selvaggi è stato impossibile elevarsi, segue che con quelle stesse risorse per una razza semi-civilizzata potrebbe essere impossibile non decadere; e come in questo caso, nuovamente, a meno che non supponiamo un Adamo e una Eva a parte per la Terra di Van Demien [ossia la Tasmania], i suoi nativi devono originariamente essere venuti da uno o l’altro dei grandi continenti dove hanno avuto sia grano che bovini; ne segue che la bassa condizione di questi nativi è molto più probabile sia stata il risultato del degrado che una primitiva barbarie. L’uomo, come animale, non appartiene alla fauna dell’Australia. L’evidenza scientifica, perciò, è conclusiva riguardo al fatto che egli venne in questo da altri luoghi; ma è altamente improbabile che le [176] circostanze del suo arrivo nell’isola fossero tali da avergli potuto consentire di portare con sé sia grano che bovini. Qualunque conoscenza aveva avuto prima di queste cose, deve necessariamente essere stata persa. La condizione presente del selvaggio australiano, perciò, rispetto a questi importanti elementi di civiltà, non offre nessuna supposizione che essa rappresenti la condizione di quelli dai quali egli discende. […] Il fatto, invero, fin qui citato, prova solo che l’oblio di arti [177] un tempo praticate e di conoscenza un tempo posseduta deve inevitabilmente essere sorto tra tribù condotte in regioni inospitali. Ma ci sono altri fatti, anche riferiti da Sir J. Lubbock stesso, i quali mostrano che ci sono casi nei quali abbiamo prova che questo processo sta avendo luogo attualmente. Così, riguardo agli esquimesi, egli cita il caso di una tribù nella baia di Baffin a cui «non poteva esser fatto comprendere cosa intendiamo con “guerra”, né avevano alcuna arma bellica». Nessuna meraviglia, povere genti! Essi sono stati condotti in regioni dove nessuna razza più forte poteva desiderare di seguirli; ma che i loro padri abbiano un tempo conosciuto cosa significassero “guerra” e “violenza”, non c’è prova più conclusiva [178] che il luogo di residenza dei loro figli. Così di nuovo Sir J. Lubbock cita la testimonianza di Cook, rispetto ai tasmaniani, che essi non hanno canoe; eppure i loro antenati non avrebbero potuto raggiungere l’isola camminando sulle acque. Qualcuna delle tribù non conosceva il modo come il fuoco potesse essere ottenuto una volta estinto. Di nuovo, degli australiani, Sir J. Lubbock ci rammenta che in una caverna sulla costa del nord-ovest, sono state trovate «discrete figure di squali, delfini, tartarughe, lucertole, canoe e qualche quadrupede, ecc.»; e che, però, i presenti nativi dei paesi dove sono state trovate erano totalmente incapaci di realizzare le più vivide rappresentazioni artistiche e ascrivono i disegni [179] nelle caverne a un’azione diabolica. In tutti questi casi abbiamo l’evidenza diretta del degrado o dell’oblio, perfino sin da quando l’uomo all’inizio raggiunse le coste di queste isole lontane; e vediamo come non potrebbe essere che così, sotto effetti noti di cause note sulla condizione della nostra razza. […]
[180] […] [Gli archeologi] parlano di una antica età della pietra (Paleolitico), [181] di una nuova età della pietra (Neolitico), di un’età del bronzo e di un’età del ferro. Ora, non c’è prova alcuna che tali età siano mai esistite nel mondo. Potrebbe essere vero, e probabilmente lo è, che tutte le nazioni siano passate, nel progresso delle arti, attraverso dell’uso della pietra per gli utensili prima che fossero a conoscenza dell’uso dei metalli; ma la conoscenza dei metalli deve essere sorta in epoche molto differenti in differenti regioni della terra. In Sudafrica utensili di selce sono stati recentemente scoperti in abbondanza, ma su una grande porzione di quel vasto continente la conoscenza e l’uso del ferro sembra essere stata di antica data; ed io sono stato informato da Sir Samuel Baker che il minerale ferroso è [182] così comune in Africa e di un tipo così facilmente riducibile dal fuoco che il suo uso avrebbe potuto essere scoperto dalle tribù più rozze. È una questione di fatto, essi adesso sono tutti lavoratori del ferro eccellenti. E ancora, è bene ricordare che ci sono alcuni paesi nel mondo dove la pietra è così rara e difficile da trovare come i metalli. In essi, l’uso di utensili di pietra potrebbe persino implicare un commercio esteso. Le grandi pianure alluvionali della Mesopotamia sono un caso esemplare. In conformità, sappiamo dai resti della prima monarchia caldea, che una civiltà molto elevata nelle arti dell’agricoltura e del commercio coesisteva con l’uso di utensili di pietra di un carattere molto rozzo. Questo [183] fatto prova che rozzi utensili di pietra non sono necessariamente un’indicazione di una condizione realmente barbara. Assumendo, allora, che l’uso della pietra ha in tutti i casi preceduto l’uso dei metalli è ben certo che la stessa età che in una parte del mondo era un’età della pietra, in un’altra era un’età del metallo. A tal riguardo, gli esquimesi e gli isolani del mare del sud stanno adesso, o stavano molto di recente, vivendo in una età della pietra; e così è stato in tutti i tempi passati dei quali rimane qualche documento. L’intero argomento, perciò, che è stato fondato sugli utensili di selce, è un argomento soggetto a queste due fondamentali obiezioni: la prima è che gli utensili di selce sono un indizio molto incerto di civilizzazione, perfino tra le [184] tribù che li usano; e la seconda è che essi non sono affatto un indizio dello stato di civilizzazione tra le altre che vivono nello stesso tempo in altre porzioni del globo. Il ritrovamento di utensili di selce, per esempio, quantunque rozzi, in Inghilterra o in Danimarca o in Francia, non offre nessuna evidenza della condizione delle arti industriali nella stessa età sulle sponde dell’Eufrate o del Nilo. […]
Sir J. Lubbock dice che sono stati trovati alcuni selvaggi che non hanno affatto religione. Tale, egli sostiene, [185] probabilmente era la condizione dell’uomo primitivo, perché egli «avverte difficile credere che qualche popolo che una volta possedette una religione potrebbe mai perderla completamente». Sicuramente, se c’è un fatto più certo di un altro rispetto alla natura dell’uomo, esso è che egli è capace di perdere la conoscenza religiosa, di cessare di credere nella verità religiosa e di staccarsi dal dovere religioso. Se con “religione” è intesa meramente l’esistenza di qualche impressione di poteri invisibili e “soprannaturali” – perfino questo, lo sappiamo, non solo può essere perduto, ma sprezzantemente rinnegato da uomini che sono altamente civilizzati. […]
[188] Tra le cause che hanno determinato la loro [delle religioni] forma e il loro carattere in differenti nazioni dobbiamo contare la corruzione morale della natura umana. Non sto parlando di questa corruzione in senso dogmatico e teologico; parlo di ciò come di un fatto indiscutibile, qualunque sia la storia della sua origine. Con “corruzione della natura umana”, intendo il fatto innegabile che l’uomo ha la costante tendenza ad abusare dei suoi poteri, per fare ciò che persino in accordo con il proprio standard di giusto e sbagliato egli sa che non dovrebbe essere fatto; per essere ingiusto e crudele verso gli altri; per cadere in superstizioni orribili e umilianti. La corruzione umana, in questo senso, è tanto un fatto nella [189] storia naturale dell’uomo, quanto che egli sia un bipede senza piume. Ciò è completamente indipendente da qualche credenza o teoria come per la condizione originaria dell’uomo. L’argomento di Sir J. Lubbock implica che le tribù, se tali esistano (cosa, ad ogni modo, estremamente dubbia), che non è noto abbiano affatto alcuna idea rispetto ad esseri spirituali o di un altro mondo, siano in una condizione inferiore rispetto alle tribù che hanno una “religione”, per quanto crudeli e orribili potrebbero essere i suoi riti. In accordo con questa teoria, perfino le adorazioni sataniche potrebbero essere un passo in ascesa verso la “civilizzazione” dalla “totale barbarie” dell’uomo primitivo. Ma questa è una teoria così contraria alla ragione così come è contraria a tutta l’evidenza che abbiamo sulla storia dell’uomo. Quanto più lontano possiamo tornare indietro [190] in questa storia, tanto più chiare diventano le tracce di qualche tradizione pura e i raggi di qualche luce primitiva. Tale evidenza, come offrono la storia, la filosofia e il criticismo sul corso della conoscenza religiosa, non è in favore della dottrina di una graduale insorgenza, ma al contrario di una continua corruzione e declino. «Se c’è una cosa», dice il professore Max Müller, «che lo studio comparato delle religioni porta alla più chiara luce, essa è la decadenza inevitabile alla quale ogni religione è esposta. […] Ogniqualvolta che possiamo ricondurre una religione al suo primo inizio, la troviamo libera di alcune deformazioni che la colpiscono in stadi successivi» […]
[192] […] La verità è che la capacità dell’uomo di decadere sta in stretta relazione ed è proporzionata alla sua capacità di migliorare. Quale facoltà della mente umana giace più vicina al vero centro della sua vita superiore che la facoltà dell’immaginazione? Senza di essa non potremmo interpretare la natura, formare alcuna concezione delle sue leggi, sentire la loro armonia, comprendere il loro uso; senza di essa non potremmo vedere l’astratto o leggere il futuro; senza di essa non avremmo motivo di resistere all’impulso, di mantenere convinzioni o di elevarci al dovere; non ci faremmo alcuna idea della religione; non sarebbe possibile desiderare l’ignoto o sperare per [193] l’invisibile. Eppure Pascal non si sbagliò quando piazzò questa stessa facoltà dell’immaginazione in testa ai “poteri ingannevoli”; perché essa è, in verità, una delle cause e degli strumenti più effettivi del degrado. È sua funzione dare forma ed espressione a tutte quelle emozioni vaghe che sorgono inevitabilmente dal contatto tra la mente che è nell’uomo e la mente che è nella natura. Queste emozioni sono letteralmente ciò che il poeta chiama «i vuoti dubbi di una creatura che si muove in mondi non realizzati». Ma senza conoscenza data o acquisita a guidare gli elementi nell’immaginazione, che sono puramente intellettuali, e senza la virtù a controllare gli elementi che sono principalmente morali, questo “potere superbo” (come Pascal [194] giustamente la chiama) farebbe, invero, un’opera terribile. Essa è la madre e la nutrice di tutte le orribili invenzioni dell’idolatria. Attraverso la sua opera sono sorti, di volta in volta, tutti i riti diabolici che hanno degradato, e fanno ancora decadere, così tante tribù di uomini molto al di sotto del livello dei bruti. Ma irrazionali come potrebbero apparire le superstizioni della nazioni pagane, e perfino inconciliabili con un essere che è capace di ragione, non dovrebbe essere dimenticato che questo è vero solo degli ultimi sviluppi dell’idolatria e non è vero dei suoi primi inizi. Al contrario, queste sono tra le più naturali di tutte le tentazioni spirituali e forse le più difficili a cui resistere. Il primo dei comandamenti [195] è il più difficile da osservare di tutti gli altri: «Non avrai altro Dio all’infuori di me». La dipendenza della mente umana da simboli esteriori e quindi la sua tendenza a identificare questi simboli con la concezione che rappresentano – queste sono le radici di tutta l’idolatria. Il corso del pensiero, ai giorni nostri, perfino tra uomini altamente civilizzati ed illuminati, potrebbe bene ricordarci quanto facile e quanto naturale sia cadere in sistemi di credenza che nel loro carattere fondamentale sono culti di creatura. Il fatto è che per quanto ci sia qualche difficoltà nel comprendere come una verità spirituale, una volta conosciuta, potrebbe essere mai perduta, tutta l’osservazione e l’esperienza prova che è la più difficile della cose mantenere perfino con [196] discreta purezza un alto standard di fede spirituale; mille tendenze dall’interno e dall’esterno sono perpetuamente all’opera per minarla e trasformarla. E allora le terribili correlazioni del pensiero umano rendono non solo probabile ma inevitabile che i primi distacchi dalla conoscenza e dall’amore della verità devono finire in più ampie divergenze da essa. L’infinta finezza ed ingenuità dell’immaginazione, quando essa è ignorante e corrotta, darà ampiamente conto dell’origine e dello sviluppo perfino delle più degradate superstizioni. […]
[198] […] Assegno poco valore all’argomento di Whately per cui rispetto alle arti meccaniche l’uomo non avrebbe potuto elevarsi “senza aiuto”. L’aiuto che l’uomo ha avuto dal suo Creatore potrebbe possibilmente essere stato niente più che l’aiuto di un corpo e di una mente, così meravigliosamente dotata, che il pensiero fosse un istinto, che l’inventiva fosse a un tempo una [199] necessità ed un diletto. Ma assegno ancor meno valore all’argomento di Sir J. Lubbock per cui l’uomo primitivo deve essere nato in uno stato di “assoluta barbarie”, sulla base che questa è l’attuale condizione degli esclusi della nostra razza, o che la conoscenza industriale è avanzata da inizi umili, o che ci sono tracce di costumi rozzi tra alcune nazioni adesso altamente civilizzate. Nessuno di questi argomenti offre nessuna prova, o perfino nessuna ragionevole supposizione, in favore della conclusione che essi si sono impegnati a supportare: in primo luogo perché insieme con una completa ignoranza delle arti è ben possibile che potrebbe esserci stata una superiore conoscenza di Dio e una stretta comunione con Lui; secondariamente, perché [200] alcuni casi di esistente barbarie possono essere distintamente attribuiti alle avverse circostanze esterne, e poi perché è almeno possibile che tutta la reale barbarie ha avuto origine in condizioni simili; in terzo luogo, perché il carattere noto dell’uomo e gli indiscutibili fatti della storia provano che egli ha dentro di sé, in tutti i tempi, gli elementi della corruzione – che perfino nelle sue condizioni più civilizzate è capace di degrado, che la sua conoscenza potrebbe decadere e che la sua religione potrebbe essere perduta.