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Intelligenza e Vita Artificiale, tribune politiche

Squib e discussioni è la sezione della “rivista quadrimestrale di scienze cognitive e intelligenza artificiale”, Sistemi Intelligenti (edita presso Il Mulino dal 1988), che, nel numero 1/aprile 2005, ha riportato – come è uso della sezione stessa – un confronto di idee tra il direttore della stessa rivista, Domenico Parisi, e un esperto contributore, Gabriele Lolli, in merito alla vita artificiale come programma di studi. Parisi, ricercatore presso l’Institute of Cognitive Sciences and Technologies of the National Research Council di Roma e il Laboratory of Artificial Life and Robotics (oltre che autore di diverse pubblicazioni sulla vita artificiale, argomento di cui si può considerare pioniere in Italia), nel suo scritto (Dodici differenze tra l’intelligenza artificiale e la vita artificiale, pp. 155-158 del numero citato della rivista) ha preso delle posizioni abbastanza chiare in merito al ruolo svolto dal programma di ricerca sulla vita artificiale rispetto a quello invece sempre svolto dall’A.I., dal programma dell’intelligenza artificiale.
In questo scritto, infatti, possiamo leggere di queste differenze in questi termini:

  1. l’intelligenza artificiale (i.a.) è interessata a cogliere solo gli aspetti cognitivi (in particolare i comportamenti intelligenti) mentre la vita artificiale (v.a.) intende occuparsi anche degli aspetti “trascurati” come quelli motivazionali ed emotivi (i comportamenti “irrazionali”, potrebbe benissimo dirsi);
  2. l’i.a. ignora la struttura nervosa degli organismi viventi, dei quali invece la v.a. fa prezioso tesoro e ai quali si ispira;
  3. in generale, l’i.a. ignora la biologia, al contrario della v.a., dacché questa costruisce sistemi artificiali dotati di corpo, struttura nervosa artificiale, organi, “un genotipo ereditato”, oltre ad essere “membri di popolazioni che evolvono biologicamente in una successione di generazioni” (p. 156);
  4. l’i.a. si limita al mondo umano, mentre la v.a. intende volgere lo sguardo a tutti gli organismi;
  5. l’i.a. ha una visione “sincronica” del suo oggetto di studio perché disinteressata alle origini di questo, mentre la v.a. “diacronica” perché interessata alla genesi e all’evoluzione del comportamento animale;
  6. l’i.a. ha interessi soprattutto applicativi, la v.a. ha il suo scopo “in sé”;
  7. l’i.a. adotta il computazionalismo (i simboli e le regole esauriscono la vita mentale, in buona sostanza), mentre la v.a. “ha una visione della mente come il funzionamento di un sistema fisico, il sistema nervoso, inserito in un sistema fisico più grande, il corpo, a sua volta inserito in un sistema fisico ancora più grande, l’ambiente” (p. 157);
  8. l’i.a. conferisce rilevanza primieramente al linguaggio, mentre la v.a. lo inserisce tra le altre capacità (il linguaggio emerge da capacità non linguistiche);
  9. l’i.a. adotta l’analogia “mente-computer” (l’hardware di un computer è – funzionalmente – equivalente al cervello, come il software alla mente, posizione che quella formulata negli anni Sessanta del secolo scorso da Hilary Putnam e, tra l’altro, varie volte da lui rinnegata), mentre la v.a. si rifà più che altro al robot come propria icona o simbolo, perché può evolvere, apprendere, interagire e generare “fenomeni della vita mentale e dell’attività cognitiva superiore” grazie a “circuiti interni ricorrenti” (ibidem);
  10. per l’i.a. il computer rivela la natura dell’intelligenza, per la v.a. il computer è solo uno strumento per pensare e simulare sistemi artificiali (molto più utili per capire la natura della mente);
  11. al progetto dell’i.a. partecupano discipline quali la psicologia cognitivista, l’informatica, la linguistica formale e la filosofia analitica, mentre a quello della v.a. contribuiscono le scuole psicologiche “non cognitiviste”, le scienze biologiche in genere (neuroscienze in particolare) e le scienze “dure” quali matematica e fisica;
  12. l’ia., infine, “guarda agli esseri umani mettendosi dalla parte degli esseri umani, e al resto della realtà come qualcosa che gli esseri umani debbono controllare, è razio-centrica e occidento-centrica”, mentre la v.a. “guarda agli esseri umani dall’esterno, come parte della realtà, non è razio-centrica e non è occidento-centrica” (p. 158).

Lolli, docente di Logica matematica a Torino e autore di numerose pubblicazioni su temi al confine tra matematica e filosofia, risponde affermando che Turing non sarebbe d’accordo. Questo, secondo Lolli, perché il progenitore della cibernetica, delle scienze del computer e di gran parte del progetto cognitivista ebbe a dire che il suo interesse inizialmente non escludeva la struttura nervosa del cervello (contro la tesi 2 di Parisi) né il corpo intero (contro una parte della tesi 7) né i fattori emotivi (contro la tesi 1), anche se la macchina di Turing si propone – alla fine – come una macchina ideale. Non solo per questo, però, Turing “non sarebbe d’accordo”, ma anche per il suo interesse per le scienze “dure” (contro la tesi 12) e per le sue idee sulla simulazione, per le quali la stesura di un programma algoritmico segue – e non precede (come nella tesi 6 di Parisi) – la comprensione della natura della mente.
In buona sostanza Lolli ravvisa un “residuo di funzionalismo” nel pensiero di Parisi, in questo passo in cui critica il concetto di simulazione:

Nel computer non si mette una cellula, si mette un programma che deriva da, e incorpora, una teoria sul funzionamento di una cellula; per arrivare alla teoria occorre prima chiedersi: “Che cosa spiega x” ed elaborare una risposta che sia formulabile in un modello formale. Il residuo di funzionalismo espresso dall’affermazione di Parisi che quello che importa è che “il sistema artificiale si comporti come il sistema reale, non che sia fatto degli stessi materiali” indebolisce la tesi 2; ispirarsi alla struttura del sistema nervoso non salva dalla necessità di descrivere il sistema in una teoria necessariamente semplificatrice, che per forza taglia via alcune caratteristiche. Non ci si illuda di aver “rifatto x”. (…) Le contrapposizioni di Parisi sembrano forzate. Che poi dalla simulazione venga altra conoscenza non lo si nega, ma conoscenza deve essere, non la scoperta di “aver rifatto x”. (p. 160)

La conclusione della risposta è perentoria: non sarebbe corretto parlare neanche di vita artificiale ma di vita virtuale, ed in ogni caso “i programmi di VV simulano soltanto, mentre i programmi di IA fanno delle cose” (ibidem).
Prima di presentare qualche riflessione, riporto la risposta di Parisi a questa critica da parte di Lolli. Essa si articola, in sostanza, in tre passaggi: in prima battuta, Parisi rispedisce al mittente il nucleo della critica dicendo che «non mi sorprende che Turing non sarebbe d’accordo su quello che dico dato che Turing è uno dei padri dell’intelligenza artificiale, e già in un altro scritto tempo fa, intitolato proprio AntiTuring, avevo cercato di mostrare che, progredire, lo studio della mente doveva allontanarsi da Turing» (p. 161). In secondo luogo, Parisi mette in chiaro che, essendo Lolli “schierato a favore dell’intelligenza artificiale” (p. 162), la limitata importanza che questi dà alle simulazioni sia dovuta proprio a questo schieramento, il quale sarebbe per nulla affezionato alle simulazioni. Più nel merito, Parisi afferma che

per poter dire che abbiamo capito la realtà, non basta scrivere un programma ma bisogna anche mostrare che quello che viene fuori quando il programma gira nel computer, cioè i risultai della simulazione, corrispondono ai fenomeni osservati nella realtà. Contro la posizione di Lolli, io mi chiedo a che cosa serve scrivere un programma se abbiamo già capito. Invece, a favore della mia posizione, dico che se riusciamo a scrivere un programma, cioè a esprimere le nostre idee e le nostre ipotesi non a parole e con le formule matematiche, come fa tradizionalmente la scienza, ma sotto forma di un programma di computer, abbiamo almeno la garanzia che le nostre idee sono ben definite, dettagliate, complete, coerenti. Le simulazioni strumenti per pensare. (ibidem)

Infine, aggiunge un “meta-commento” in merito a discussioni come quella condotta con il collega matematico, ossia: la v.a. si propone come superamento dell’i.a. e questo comporta strategie difensive attuate da chi studia e si occupa dell’i.a., come Lolli.

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Riassunta la discussione, è ora possibile riflettervi brevemente sopra con qualche considerazione. Innanzitutto, la risposta di Parisi alla critica di Lolli è dovuta e immediata. Perché è pacifico che Turing necessariamente sarebbe stato in disaccordo con quanto Parisi sostiene. A Lolli credo sfugga, invece, un altro aspetto: Turing sarebbe d’accordo con Parisi nell’impostazione di fondo, in merito alle simulazioni, quando questi afferma che “quello che è importante è che il sistema artificiale si comporti come il sistema reale” (p. 155). Invece di sottolineare l’assunzione funzionalista che segue la frase appena citata, come fatto da Lolli, andrebbe sottolineata l’affinità alle intenzioni di Turing: il comportamentismo. Una critica più radicale al progetto delle simulazioni è senz’altro più la condivisione del comportamentismo che non del funzionalismo. Che Parisi proponga una concezione funzionalista della realtà simulata – in opposizione a Turing, come fa notare Lolli – è men grave della contaminazione comportamentista (in totale accordo con Turing, e dunque contro le intenzioni “antiTuring” di Parisi). La simulazione è reale se si comporta come ciò che simula: la scatola nera, ampiamente criticata in ambito psicologico e in filosofia della mente, ritorna nelle simulazioni ingegneristiche. Pare che si voglia ricominciare da zero e tornare agli anni Quaranta del secolo scorso: inchiodarsi saldamente a una visione prettamente comportamentista. E tutte le analisi rigorose tese a chiarire la vacuità di tale assunzione, costate più d’un sessantennio, vengono ignorate. Risulta, certo, difficile concepire una visuale che “esca” da quella umana, come suggerisce di fare Parisi, per osservare la vita e le sue forme, ma per il resto le intenzioni del progetto della vita artificiale, più che in contrasto con quelle dell’intelligenza artificiale, sembrano una loro naturale prosecuzione.

A parte tutto, ciò che conta è l’aspetto politico (accademico, in tal caso) della vicenda: l’ultima parte della risposta a Lolli è senz’altro di tale natura. In che senso politica? È facile riscontrare in certe frasi di entrambi gli autori – illustri esponenti delle due “fazioni” (quella dell’i.a. Lolli e quella della v.a. Parisi) – una forma di scontro. Scontro ideologico e di potere. Da un lato «il conservatore» (e Parisi lo dice chiaramente) che intende garantire la bontà dei propri studi, dall’altra «il progressista» che intende affermare la bontà dei propri e la loro superiorità, una sorta di affermazione. Necessariamente storica e, volontariamente o meno, politica. Gli scontri, in generale, hanno alle spalle l’ombra del potere. Ancora a tal proposito, non è insensato l’appello di Lolli inteso a cogliere quanti ricercatori (colleghi e no di Parisi) possano davvero sottoscrivere il testo di Parisi che apre il dibattito: quanti ritengono che la vita artificiale possieda tali caratteri e non altri. Appello forse emblematico alla luce della seguente affermazione di Parisi, ambigua in merito agli sviluppi della disciplina: «Il sistema di controllo del robot ha circuiti interni ricorrenti attraverso i quali esso auto-genera i suoi stessi input dando luogo ai fenomeni della vita mentale e dell’attività cognitiva superiore: immagini, ricordi, pensieri, ragionamenti, previsioni, valutazioni, decisioni» (p. 157). Un’utopia in perfetto stile Dortmouth. Q.E.D.