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Il Duca di Argyll e i cicli della distruzione

Se è vero che la filosofia si conforma come una «rinuncia al dualismo, che è l’atto di porre il pensiero da un lato e l’oggetto dall’altro»1, allora il Duca di Argyll ci offre un testo profondamente filosofico, affermando che «un sistema di classificazione che assegni un valore alle sue [dell’uomo] peculiarità anatomiche, separando con un abisso inoltrepassabile il suo corpo e la sua mente, è un sistema del tutto incompatibile con la filosofia»2. L’abusata diatriba sul rapporto tra mente e corpo (tanto più abusata oggigiorno) viene, infatti, affrontata in una maniera feconda che, in un’epoca sospesa tra due religioni (la cristiana e la positivista), cede poco o punto a ciascuna di esse. Dicendo di volere affrontare le sue questioni in maniera scientifica, cercando di svincolarsi dalla dottrina cristiana, al Duca va anche il merito, in pieno positivismo trionfante, di aver riconosciuto in quest’ultimo una religione non meno temibile, nei suoi divieti e nelle sue imposizioni, dell’altra. Egli infatti nota che nell’affermazione di George Henry Lewes3, secondo la quale «qualunque cosa che è inaccessibile alla ragione dovrebbe essere rigorosamente interdetta alla ricerca»4, risuonano i vecchi divieti religiosi; in contrapposizione a ciò, l’autore di Primeval man sostiene che nessuna via deve essere preclusa fintantoché non sia stata provata.
Le argomentazioni riguardanti il rapporto tra la mente dell’uomo ed il suo corpo, nella fattispecie la relazione che può esserci tra la debolezza di questo e la potenza di quella, ha come sottofondo lo struggle for life. L’ovvia constatazione per cui un essere delle stesse capacità fisiche dell’uomo, ma con poteri mentali inferiori, non avrebbe mai potuto sopravvivere alla lotta per l’esistenza porta il Duca a sostenere che l’uomo, in definitiva, sia stato tale e quale è adesso sin da quando è apparso sulla terra e che di conseguenza non possa aver perduto gli attributi fisici più “bestiali” prima che si fossero sviluppate le sue capacità mentali. La struttura fisica dell’uomo e le sue facoltà mentali non possono essere separate e tra di esse esiste una stretta correlazione. Infatti, e qui entrano in gioco anche le differenze con gli altri animali (i cosiddetti animali “inferiori”), contrariamente a quanto sostenuto da Huxley, e cioè che anatomicamente parlando non c’è poi molta differenza tra uomo e gorilla o scimpanzè, mentre esiste un abisso incolmabile tenendo conto del fenomeno della mente, il Duca di Argyll è fermamente convinto che una tale distinzione non sia per nulla adeguata, ossia «c’è una connessione inseparabile tra il fenomeno della mente e il fenomeno della corporeità. Essi devono essere presi insieme ed interpretati insieme»5.
La posizione del Duca di Argyll si viene a configurare come quello che nelle odierne classificazioni di filosofia della mente è detto “monismo neutrale”; una posizione per la quale «il pensiero e la materia sono due diverse manifestazioni di un’unica sostanza che non è in sé né materiale né spirituale»6. A dire la verità, il Duca non si pone mai direttamente la questione su quale sia lo statuto ontologico della mente e del corpo, se l’una o l’altro siano anima o spirito o materia; ed il suo continuo parlare di forma e di funzioni potrebbe far sospettare che la sua sia una posizione molto simile al funzionalismo. In realtà, però, non si può dire che egli sia funzionalista perché non ammette che una mente come quella dell’uomo possa “girare” o funzionare sopra qualsiasi supporto; stabilisce una stretta ed indissolubile correlazione tra l’organizzazione corporea e le capacità mentali: «la struttura di ogni creatura è correlata con le funzioni che le sue diverse parti sono adibite a compiere; e il carattere mentale, le disposizioni e gli istinti della creatura sono, nuovamente, strettamente correlati con queste funzioni»7. Ciò che lo accosta, invece, al monismo neutrale sono affermazioni del genere:

non potremmo capire – e non lo facciamo – come questi fenomeni della materia e della mente sono così dipendenti ciascuno dall’altro; ma a ciò che vediamo questa dipendenza è universale e le distinzioni che noi troviamo nella struttura anatomica hanno il loro valore corroborato e confermato da una stretta e inseparabile corrispondenza di istinto ed intelligenza. L’uomo non è un’eccezione, in ogni caso, a questa legge universale8.

Mente e corpo, dunque, sarebbero due proprietà strettamente correlate e peculiari dell’essere umano; ma è sulla base di quest’essere, che non viene definito ontologicamente, che esse sono possibili. L’uomo, insomma, è tale non perché ha una mente e un corpo siffatti e in questa relazione; al contrario, questa relazione e le caratteristiche di mente e corpo sono possibili solo perché, in qualsivoglia modo e metodo, è stato introdotto l’uomo sulla Terra.
È interessante notare, inoltre, come il Duca distingua il corpo morto, ciò che in tedesco è chiamato Körper, dal corpo vivente, Leib. La fondamentale distinzione tra il corpo morto, il corpo fisiologico degli anatomisti, e il corpo vivente, l’organismo a cui si deve attribuire senso. Se è vero che magari sul tavolo di dissezione la mano della scimmia e la mano dell’uomo possono apparire simili, si deve però considerare che «dobbiamo accettare dagli anatomisti tutti i fatti che l’anatomia può insegnare; ma il valore da assegnare a questi fatti è una questione molto differente. Tutta la classificazione è ideale e dipende dal valore relativo che assegniamo a fatti che in se stessi sono incontestabili»9.
Se dobbiamo, dunque, assegnare un valore, ai dati anatomici, dobbiamo vedere cosa comportano le differenze emergenti sul piano della vita; facilmente il Duca rintraccia la principale differenza nella costitutiva debolezza fisica dell’uomo in confronto agli altri animali. In questo contesto, vacilla persino l’idea della selezione naturale; come potrebbe, infatti, una selezione che opera per il meglio portare avanti delle caratteristiche svantaggiose per la lotta per l’esistenza? Dunque se l’uomo avesse perso la sua prestanza fisica prima di acquisire i pieni poteri mentali di certo non sarebbe sopravvissuto. Gli organi e le forze corporee «non poterono essere modificate nella direzione di una grande debolezza senza un’inevitabile distruzione, fino a che prima non fosse stata stabilita, con il dono della ragione e di capacità mentali di inventiva, un’adeguata preparazione per il cambiamento»10. Tale cambiamento deve, per forza di cose, essere avvenuto simultaneamente, sia, come abbiamo visto, perché v’è una stretta relazione tra le strutture corporee e le facoltà mentali, sia per l’ovvia ragione, anch’essa accennata, che un indebolimento fisico avrebbe comportato la morte, se non fosse stato accompagnato da un accrescimento dei poteri mentali.
Sorge, pertanto, un’altra questione: come si sono sviluppati questi poteri mentali? Sempre nei termini del vantaggio evolutivo e della selezione naturale, non è per nulla vantaggioso essere fisicamente deboli; del resto, una breve disamina dei metodi naturali ed artificiali della creazione di una nuova specie porta il Duca di Argyll alla conclusione che da due individui della stessa specie non possa nascere una specie del tutto nuova e che tra gli ibridi la natura ha posto come divieto di riproduzione la sterilità. La conclusione è dunque che l’uomo deve aver sempre posseduto una struttura tale (e quindi anche delle facoltà mentali) che gli permette di sopravvivere e per cui «l’uomo ha, e deve sempre aver avuto, istinti che offrono tutto ciò che è richiesto come base per avanzare nella arti meccaniche»11. La fecondità della prospettiva del Duca è racchiusa nel convincimento in base al quale gli istinti dell’uomo sono tali da condurlo alla tecnica. Questa, pertanto, e tutte le tecnologie sono tanto naturali ed istintuali per l’uomo quanto «per un cane mordere o per un toro caricare»12. La cultura, la tecnica e la tecnologia, dunque, sono per l’uomo tratti totalmente e, almeno riguardo alla loro origine, esclusivamente naturali ed istintivi.
Concludere, quindi, che l’uomo deve aver avuto da sempre questi istinti tecnici e culturali, significa pensare che l’uomo stesso, qualunque sia stato il tipo o il metodo della sua introduzione nel mondo, non abbia avuto bisogno di alcun aiuto esterno per intraprendere la strada della conoscenza di quelle che il Duca chiama “arti meccaniche” e addirittura, aggiungerei, della conoscenza tout court. La polemica che l’acuto Duca intraprende con le tesi dell’arcivescovo di Dublino Richard Whately13, secondo il quale l’uomo non avrebbe potuto innalzarsi dalla barbarie senza l’aiuto divino, è tutta volta a dimostrare che l’unico aiuto che questi avrebbe dato all’uomo consistette in «niente più che l’aiuto di un corpo e di una mente, così meravigliosamente dotata, che il pensiero fosse un istinto, che l’inventiva fosse a un tempo una necessità ed un diletto»14.
L’uomo, dunque, secondo il Duca di Argyll, è frutto di una creazione (la quale, come ogni introduzione di una nuova specie ha sconvolto il normale corso delle cose) di cui non conosciamo né il modo né il metodo; tutto ciò che possiamo dire è che la prima “creatura” degna di essere chiamata “uomo” deve avere avuto tutte le caratteristiche fisiche e mentali dell’uomo com’è noto attualmente. In tal senso siamo in una prospettiva anti-evoluzionista.
Ma c’è dell’altro: giacché l’uomo è stato capace di progredire nella conoscenza delle arti meccaniche (e non), e tuttavia se si guarda all’ambito morale e religioso non si può fare a meno di notare che egli è capace di degrado e corruzione, ossia, in una parola, di decadenza, il Duca ne conclude che è per opera della stessa facoltà, cioè dell’immaginazione, che possono avvenire innalzamenti e decadenza; addirittura, sostiene che «la capacità dell’uomo di decadere sta in stretta relazione ed è proporzionata alla sua capacità di migliorare»15. La decadenza connaturata all’uomo significa innanzi tutto che non è per nulla scontato che la sua situazione primitiva fosse quella di una “assoluta barbarie”; la decadenza può darsi in molte forme: su tutte l’oblio. L’oblio capace di cancellare nel bene e nel male la conoscenza delle tecniche, compresa la tecnica bellica. Se questo fosse vero, se la testimonianza di Lubbock riportata dal Duca riguardo ad una tribù nella baia di Baffin che non riusciva a comprendere il significato della parola ‘guerra’ e non possedeva armi belliche16 fosse del tutto attendibile, allora la guerra si verrebbe a conformare come non antropologicamente necessaria né inevitabile.
Resta il fatto che l’uomo, secondo il Duca, è l’ultimo prodotto della creazione, l’ultima forma, giacché da quando egli è comparso nessuna nuova specie è stata vista nascere; perdipiù egli è soggetto alla – anzi addirittura porta in sé connaturata la – decadenza. Gli altri animali, a questo riguardo, non sono decadenti perché non possiedono immaginazione. L’essere ultimo e decadente coincide, in tale prospettiva, con la chiusura dei cicli della creazione; l’uomo appare come il non plus ultra, in tutti i sensi, giacché da quando egli è comparso sulla faccia della terra «i cicli della creazione sono stati chiusi, ma non i cicli della distruzione»17. Il dodo e l’alca impenne18 rappresentano due tipici esempi di animali sterminati dall’uomo; ma a questi tipo di annientamento, sostiene il Duca, dobbiamo aggiungere quelli più strettamente “naturali” quali i cambiamenti climatici e i movimenti tellurici che hanno cambiato la configurazione della superficie terrestre. Se, dunque, con l’uomo non solo sono stati chiusi i cicli della creazione, ma all’annientamento “naturale” aggiunge lo sterminio umano, allora, a mio avviso, si può dire che la comparsa dell’uomo si colloca all’inizio della fine, ossia all’inizio di quel processo che porterà a due possibili conseguenze: la prima è che tutte le altre specie, in un modo o nell’altro, ossia per mano dell’uomo o per catastrofi naturali, saranno annientate; la seconda è che, a quel che ne sappiamo, non potendo l’uomo sopravvivere senza le altre specie, sarà annientato anche lui; e se fosse dunque vero che i cicli della creazione sono ormai chiusi, ciò significherebbe l’estinzione della vita (quanto meno della vita animale) sulla faccia della Terra.
Ovviamente, rimanendo nella prospettiva del Duca di Argyll, è del tutto coerente che la comparsa dell’essere decadente conduca al nulla, giacché la decadenza dell’uomo fa sì che egli sia un essere nichilista e nientificatore; ed è affascinante constatare che la sua decadenza, e quindi il suo essere all’inizio della fine, sia tanto connaturata in lui e che derivi dalla peculiarità della sua struttura fisica e delle sue capacità mentali, tra le quali, lo ricordiamo, secondo il Duca «c’è un adattamento così buono, e così ovvio al senso e alla ragione, come c’è tra la feroce disposizione di una tigre ed i suoi possenti artigli, o tra il carattere retrattile di questi e la sua andatura soffice e furtiva»19. Le peculiarità dell’uomo, perciò, fanno sì che egli si ponga quale ultimazione e completamento dei cicli della distruzione, aggiungendo alle distruzioni climatiche e telluriche quelle proprie delle sue capacità tecniche. Ciò, come abbiamo visto, non è dato né dalla sua debolezza fisica, né dalla sua potenza mentale; è dato dalla relazione e correlazione che v’è fra questi due aspetti, ossia da ciò che la rende possibile e che, se l’interpretazione è corretta, è proprio l’essere umano. Connaturatamente, il che significa naturalmente ed istintivamente (dove la tecnica è naturale ed istintuale), l’uomo è decadente, perché la sua facoltà immaginativa lo può portare tanto facilmente al miglioramento quanto al degrado; inoltre, l’essere spartiacque tra la chiusura dei cicli della creazione e la continuazione ed ultimazione dei cicli della distruzione mostra come la decadenza lo conduca inevitabilmente, perché la natura e l’istinto sono il regno della necessità, all’estasi immaginifica del nulla.

Note
1. G. Raciti, in «http://www.giusepperaciti.eu/letture.htm».
2. Duca di Argyll, Primeval man. An Examination of some recent speculations, University of Michigan Library, 2006, pag. 60.
3. G. H. Lewes (Londra 1817-1878); aderito al positivismo, fu colui che introdusse nel Regno Unito il pensiero di Comte.
4. Duca di Argyll, Primeval man, cit., pag. 22.
5. Ivi, pag. 51.
6. S. Nannini, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Laterza, Roma-Bari 2002, pag. 206. Sarebbe interessante, a tal proposito, rintracciare le possibili influenze o quantomeno i punti di contatto tra il pensiero di Spinoza e quello del Duca di Argyll. Nannini stesso classifica la posizione di Spinoza come una combinazione di «un ‘dualismo degli attributi’ con un ‘monismo neutrale’ (cioè né materialistico né idealistico) della sostanza» (Ivi, pag. 26). È noto infatti che per Spinoza «L’ordine e la connessione delle idee è uguale all’ordine e alla connessione delle cose» (Etica, II, Prop. VII, trad. di R. Cantoni e M. Brunelli). Tuttavia, «fin quando le cose sono considerate modi del pensiero, dobbiamo spiegare l’ordine di tutta la natura, cioè la connessione delle cause, con il solo attributo del pensiero, e in quanto le cose sono considerate modi dell’estensione, l’ordine di tutta la natura deve essere spiegato con il solo attributo dell’estensione» (Etica, II, Scolio della Prop. VII, trad. di R. Cantoni e M. Brunelli). Ciò significa che v’è una sorta di impermeabilità causale tra il pensiero e l’estensione; né il pensiero causa l’estensione, né viceversa. Anche riguardo al duca di Argyll è difficile rintracciare, più che un’interazione causale, un primato causale; ossia non viene detto se siano i poteri mentali a causare un adeguamento della struttura corporea, o viceversa; se alcune affermazioni fanno propendere per una sorta di materialismo, facendo sospettare che sia la struttura corporea a determinare le facoltà mentali, il passo che vedremo fuga questo sospetto e ci rimette nel dubbio: «può essere detto con certezza che una diminuzione molto piccola della capacità mentale al di sotto di quella di un selvaggio australiano renderebbe la struttura caratteristica dell’uomo incompatibile con la continuazione della sua esistenza in molti, se non in tutti, i luoghi dove egli attualmente si trova. Se questa struttura fosse appena più bestiale, potrebbe essere meglio adatta per un’esistenza bestiale; ma è impossibile concepire come essa possa mai essere emersa da quell’esistenza in virtù della selezione naturale. L’uomo deve aver avuto proporzioni mentali umane prima che si sia potuto permettere di perdere proporzioni corporee bestiali. Se il cambiamento nel potere mentale avvenne simultaneamente con il cambiamento nell’organizzazione fisica, allora è tutto ciò che possiamo mai conoscere o comprendere della nuova creazione» (Duca di Argyll, Primeval man., cit., pag. 70-71). Insomma, sappiamo che c’è simultaneità tra mente e corpo, ma non sappiamo da cosa sia dettata; probabilmente il Duca pensa che l’uomo sia stato creato così, con una mente e un corpo che si corrispondono, simultaneamente, per decreto divino. In questo potrebbe vedersi un’affinità con Spinoza, oltre che in ciò che in alcuni sfuggenti passi sembra emergere dallo scritto del Duca, ossia l’essere soggetti alla necessità; ma di questo si veda più sotto.
7. Duca di Argyll, Primeval man., cit., pag. 51.
8. Ivi, pag. 60.
9. Ivi, pag. 51.
10. Ivi, pagg. 67-68.
11. Ivi, pagg. 144-145.
12. Ivi, pag. 148.
13. Richard Whately (1787-1863), arcivescovo di Dublino dal 1831; scrisse di logica, teologia ed economia politica.
14. Duca di Argyll, Primeval man., cit., pagg. 198-199.
15. Ivi, pag. 192.
16. Ivi, pag. 177.
17. Ivi, pag. 114.
18. Il dodo si estinse nel 1662 o nel 1681, a seconda delle fonti; certamente, però, o per cibarsene o distruggendo il suo habitat, per l’azione dell’uomo. L’alca impenne, sola specie del genere pinguinus, vide i due ultimi esemplari uccisi nel 1844 da amabili cacciatori (anche se forse l’ultimo avvistamento di tale animale risale al 1852).
19. Duca di Argyll, Primeval man., cit., pagg. 58-59.