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Potere e teoresi. Incontro con Giuseppe Raciti

Il potere è ciò che c’è, l’assenza di potere è ciò che non riesce a essere. Il potere non si vede? Il potere è piuttosto l’unica cosa che si possa vedere: semmai, il potere non si vende… Ora, il filosofo Giuseppe Raciti (qui i suoi scritti), docente di Filosofia delle Religioni e Filosofia Teoretica all’Università di Catania, ha spesso discusso di ciò, di queste forme, di questi poteri, di queste logiche. In un modo che qui, davvero, non si può dire. Bisogna che si faccia attenzione alla forma, alla formazione, al formato, alle deformazioni… Nel suo sito personale [ora rimosso], un iniziale riferimento alla questione compare nella sezione dedicata agli aforismi:

Se il potere occulta la realtà, il potere è il pudore della realtà.

Raciti si è espresso in proposito anche su Sitosophia (commentando la recensione di Alberto G. Biuso a un testo di Steven Rose), dove apprendiamo che è possibile intravedere una forma politica tanto nel dualismo neuroscientifico mente/cervello, quanto in quello guerra/pace:

Vado di corsa: il cervello è reale, la mente è reale. Ebbene due realtà o positività, proprio perché tali, non possono avere rapporti l’una con l’altra. Esse intrattengono al più un rapporto paritetico, o sia di indifferenza. Ma l’indifferenza è precisamente la mancanza di rapporti. Nel fatto, se c’è un rapporto, c’è una dipendenza, e questo significa che una delle due cose in rapporto è più reale dell’altra. Questa eccedenza di realtà, comunque la si voglia intendere, a favore della mente o del cervello, denuncia l’intenzione metafisica. Ne derivano problemi anzitutto politici. Tutto il quadro teorico delle neuroscienze è, se mi passi l’espressione, più vecchio del cucco; inedito e inquietante (perché ‘imperiale’) è invece il modo in cui esse assecondano la piegatura politica dei concetti in gioco. (…).

Parità è spassionata indifferenza, assenza di rapporto. Pace. C’è lotta, guerra, quando non tutto il reale è reale, quando si addita, in un punto, qualcosa d’irreale (il negativo), cioè qualcosa da assoggettare. Dalla mia prospettiva, forse trascurabile, mente e cervello sono enti autonomi, irrelati. Sono enti reali. Solo l’intenzione metafisica, politicamente interessata, li mette in rapporto e affibbia a uno dei due termini il ruolo del negativo.

Ancora dal sito del docente, un brano di Boris Groys (di cui è possibile sentire la voce sul sito della sua accademia tedesca a Karlsruhe) tradotto da Raciti:

ci si consacra veramente alla filosofia o all’arte solo quando non si crede più seriamente a un’immortalità garantita in senso extraculturale, extrastorico, cioè in senso ontologico. Se si crede in Dio, nello spirito del mondo, nell’Essere, nell’inconscio o, per es., nell’alterità assoluta, non c’è alcun bisogno di sviluppare discorsi filosofici o creare opere filosofiche destinate a durare. In tal caso, infatti, è sufficiente la garanzia ontologica, la quale sarà in grado di resistere alla sparizione delle cose anche senza intervenire. Ma se riguardo a questa garanzia ontologica dell’immortalità si inclina allo scetticismo e si opta nondimeno per l’immortalità, allora si comincia a praticare la politica dell’immortalità, o almeno la politica della lunga durata. A questo punto cominciamo a considerare il modo in cui certi discorsi — non importa se su Dio o l’inconscio — sono posizionati in termini strategici, al modo in cui sono preservati e radicati in seno all’istituzione.

Altro luogo in cui Raciti ha avuto modo di esporre le proprie riflessioni in maniera più ampia – a parte naturalmente i suoi scritti a stampa – è stato il Caffè Filosofico organizzato da Sitosophia lo scorso 11 dicembre in Facoltà a Catania, dal titolo “Il pensiero nella rete. Filosofia politica”. Da quel primo incontro sono tratte le citazioni riportate di seguito, che il docente mi ha gentilmente concesso di pubblicare. Desidero ringraziarlo per questo. Si coglie allora l’occasione per evidenziare alcuni – e soltanto alcuni, sebbene ampiamente riportati – dei nuclei tematici affrontati quella sera dal filosofo.
Il potere, teoreticamente inteso, diviene questione politica e Raciti ne parla attraverso personaggi come Mühlmann e Lütkehaus.

Io mi interesso di determinate cose come, per esempio, il rapporto civiltà-civilizzazione, che è un rapporto eminentemente politico e che ha avuto un grande passato dal punto di vista della storia della filosofia: nasce in una certa stagione dello storicismo tedesco come reazione allo storicismo stesso, attraverso nomi come quello di Spengler (…). Questa stagione ha avuto i suoi esiti – molto interessanti – in certe pubblicazioni di (…) Heiner Mühlmann, (…) una strana figura di sociologo e di biologo. È quello che ha raccolto gli esiti più fecondi della filosofia spengleriana e li ha coniugati con i risultati delle neuroscienze, soprattutto quelli filtrati attraverso la grande esperienza di Francisco Varela. (…) In buona sostanza, Mühlmann assume dal costruttivismo di Varela l’idea inquietante secondo cui ci sarebbero tante visioni del mondo (ma non è questo ovviamente il linguaggio che utilizzano questi filosofi, lo uso per spiegarmi meglio) quante sono le specie che proiettano un qualche sguardo su questo mondo. La visione non rappresentazionale – cioè non basata sul dispositivo della rappresentazione – sta a significare che non si tratta di riprodurre un mondo già dato, ma si tratta di affidare a un sistema neurologico – un neurosistema – la costruzione del mondo. (…).

Questa idea secondo cui noi avremmo una percezione del mondo legata a un determinato assetto neurosistemico, si ritrova mutata, rigovernata, riformata, in un altro degli autori di cui mi sono occupato (…). Il nome è Lütkehaus. E già il nome è difficile. Lütkehaus è noto in Germania soltanto per una cosa, per il fatto, cioè, di avere curato una certa edizione delle opere di Schopenhauer. Un’edizione peraltro non completa; è una silloge; però una silloge molto informata perché Lütkehaus pretende di essere l’ultimo significativo interprete di Schopenhauer. Ebbene, non è tanto questo aspetto schopenhaueriano che mi ha interessato, sebbene lo trovi nobilissimo; e non è neanche il libro che scrisse qualche anno fa e che sconvolse il pubblico erudito del suo paese (fu capace di scrivere ottocento pagine intitolate Nichts, cioè “niente”). Non sono questi gli aspetti, peraltro pittoreschi, del personaggio che mi interessano; mi interessa un libro – che è appena uscito e che ho, per così dire, recensito – si chiama Natalità. In questo libro si affaccia una tesi che io trovo straordinaria. Si parla del nascere, e si dice che la famiglia, quella in cui tutti siamo nati – persino io –, è quell’ambito in cui, “innanzitutto e perlopiù”, per esprimerci in termini heideggeriani, viene fatta a pezzi l’essenza stessa del nascere, cioè la novità. Perché non c’è dubbio che nascere significa introdurre una novità nel mondo; non c’è dubbio che nel momento in cui sono nato non c’era niente di simile, nel bene e nel male. Ebbene, la famiglia si incaricherebbe di chiudere ogni nascita in una continuità prestabilita e quindi, come dire, di spezzare – passatemi il giuoco – la spezzatura. Mentre ogni nascita spezza, la famiglia spezza ciò che spezza; vale a dire: stabilisce una continuità che è inesorabile. Inesorabile. Il più originale di noi, il più dotato di noi – da ogni punto di vista – è comunque un essere banale, per essere nato in una famiglia che ha spezzato sul nascere tutte le sue prerogative di originalità. (…) tutto ciò che è contro la famiglia ha un valore artistico, in quanto la famiglia è ciò che spezza tutte le nostre povere ambizioni.

Lütkehaus scrive questo libro che è, apparentemente, un saggio molto dotto sulle interessanti teorie di Hannah Arendt riguardanti lo stesso tema della natalità, teorie che sono sparse più che altro nelle opere postume della Arendt. Questo è il pretesto. Ma in realtà lui fa un libro contro la famiglia. Non però nel senso della grande – ma fallimentare – tradizione della Scuola di Francoforte, dei vari Marcuse, della psichiatria alternativa, dei Roland Laing, del nostro povero Basaglia, etc., che hanno colpito l’aspetto sociale della tradizione, non è questo, non è in questione l’aspetto sociale. Nel libro di Lütkehaus si parla di una categoria che è inedita, cioè quella di “biodicea” (Biodizee, in tedesco). È lui che ha il merito storico di aver introdotto questa categoria. (…) Ora, calcando questo concetto sul concetto di teodicea ne ha ricavato una nozione importante, secondo me. Vale a dire il problema della famiglia al di là della questione sociale; perché Lütkehaus scopre che il problema della famiglia non è sociale: quello è un falso problema. Anzi, sociologicamente parlando la famiglia è fortissima, è come il capitale nell’ottica di Gilles Deleuze: attraverso le sue crisi si rigenera, il capitale vive delle sue crisi, il capitale si alimenta delle sue crisi. Così la famiglia. Ma no, lui sposta la questione sul piano della biologia, o meglio della biodicea (non della biologia, appunto, dei sistemi neuronali di cui abbiamo parlato poc’anzi). È un problema – lasciatemelo dire con un linguaggio vecchiotto almeno quanto chi parla – esistenziale. Pone un problema esistenziale. Bisogna nascere bucando un involucro, bisogna nascere spezzando l’involucro della vita. Straordinario questo libro di Lütkehaus (…); e vi assicuro che c’è anche una grande lingua. Probabilmente come curatore e frequentatore di Schopenhauer ha ereditato la grande prosa di Schopenhauer – per quello che ha potuto, perché Schopenhauer è un grande maestro della prosa e l’unico che ha ripetuto i fasti di Schopenhauer in quella lingua lì è stato soltanto Sigmund Freud. Bisogna nascere contro la vita. Questa è la tesi di Lütkehaus.

Ma cosa c’entra – io sono passato da Mühlmann a Lütkehaus promettendo una connessione – Lütkehaus con Mühlmann? C’entra perché, secondo Lütkehaus, uno che nasca veramente è uno che si dota di un personale principio evolutivo. Qui non si tratta tanto di contestare Darwin, si tratta di concepire una specie di “darwinismo prêt-à-porter”, cioè un darwinismo che sia valido per ciascuno dei contraenti: io mi evolvo in un modo che non è quello tuo. Cioè la questione della specie passa in second’ordine: c’è una sorta di ipertrofia dell’ontogenesi a detrimento della filogenesi. È questo, in buona sostanza. È straordinario questo progetto di “evoluzione personale”. E trovo che il darwinismo possa avere un grande futuro se concepito in questi termini, cioè in termini personalistici. (…). Ancora una volta: cosa c’entra tutto ciò col discorso di Mühlmann? La connessione io la vedo nelle percezioni, che sono differenti a seconda della specie che percepisce. Come vedete, c’è tutto un movimento di riappropriazione di elementi vitali, che passano dal sistema percettivo al percorso evolutivo; si tratta in entrambi i casi di sottrarre qualcosa che sembra essere molto importante perché riguarda le nostre vite – sottrarre questi elementi, appunto, vitali al sequestro operato dalle grandi concettualizzazioni e astrazioni filosofiche occidentali. Questi signori poi (alludo a Mühlmann, a Lütkehaus), sono personaggi che senza darlo troppo a vedere flirtano molto con certe atmosfere orientali. Per Lütkehaus è abbastanza evidente attraverso la filiazione schopenhaueriana: Schopenhauer è stato quello che ha introdotto le “cineserie” in filosofia, è stato quello che ha reinventato il design dell’arredo filosofico, introducendo nozioni-burla come quella di “nirvana” (giocata da lui era un po’ burlesca – ma lui era burlesco), e comunque ha dato l’avvio alla colonizzazione di categorie orientali ad uso e consumo dei padroni occidentali. (…). Per quanto riguarda invece Mühlmann, le filiazioni e i rapporti con l’oriente sono un po’ meno evidenti ma sono cose che si percepiscono attraverso la lettura dei testi.

Il libro di Mühlmann che io prendo in analisi – analisi molto rapide, dall’andamento aforistico (…) – è uscito un paio di anni fa in Germania e si chiama MSC. “MSC” è una sigla in lingua inglese che sta per “Maximal Stress Cooperation”. Cosa significa questa sigla? È una cosa che mi preme molto raccontarvi in due parole, perché qui abbiamo un dispositivo che dovrebbe consentirci di proiettare un nuovo sguardo sul problema della guerra. Dunque, per Mühlmann le guerre sono il prodotto di un rilascio molto intenso di stress. Lo stress non è esattamente la cosa che abbiamo in mente tutti quando pensiamo allo stress: c’è anche uno stress sociale, che è quello, per esempio, che fa seguito – e lui fa proprio questo esempio – all’attacco terrorista dell’undici settembre del 2001, oppure a quello del 2004 in Spagna. Questi attacchi creano stress in una nazione; ma qual è la novità, la novità euristica di questo autore e che costituisce per me un elemento di attrazione, a parte quelli che ho brevemente illustrato prima? La novità è che, accanto allo stress, c’è sempre cooperation, cioè cooperazione. A un certo punto Mühlmann dice che ogni rilascio di stress genera un rilassamento, lo genera necessariamente. Ogni surplus di stress genera una cooperazione. Se voi adesso andate a tradurre questa dicotomia in un’altra dicotomia più classica – che sta dietro questa dicotomia –, se, cioè, si traduce “stress” con “guerra” e “cooperation” con “pace”, abbiamo un dispositivo interessante. Perché? I teorici “neocon” (oggi tanto di moda, soprattutto in America), tutti questi nipotini del grande Thomas Hobbes (che loro non capiranno mai), cosa dicono? Dicono che la condizione normale dell’individuo è la tensione alla guerra; e che tutto ciò che fa specie rispetto a questa condizione presunta normale – vale a dire ciò che chiamiamo ingenuamente, dal loro punto di vista, “pace” – non è altro che una pausa innaturale; non è altro che, come dire, uno iato che si apre senza nessun fondamento, appunto, naturale (perché questa gente pretende ancora di parlare in nome della natura; se lo fa Hobbes, secolo decimo settimo, è un conto, ma se lo facciamo noi, dopo quello che abbiamo detto – sia pure in maniera incompleta – sulla neurobiologia, saremmo dei folli; ma questa gente va avanti lo stesso). Ebbene, attraverso il dispositivo stress-cooperation cosa succede? Succede che pace e guerra vengono intesi come due momenti simultanei; ci sono sempre queste due cose – sempre. Ossia non c’è stress senza cooperazione, non c’è cooperazione senza stress. Lo sguardo di Mühlmann è molto asettico, al punto da riuscire disturbante quando, in una zona di testo, dice che la cooperazione che si viene a creare, più o meno spontaneamente, tra i familiari delle vittime di un attentato terroristico è la stessa che lega i terroristi tra di loro; la stessa identica. Non c’è nessuna gerarchia nell’ambito di una cooperazione. Cioè i terroristi cooperano esattamente come le vittime e secondo la stessa logica, godono secondo la stessa logica. Anche loro, dopo lo stress, godono; perché danno un significato positivo alla loro azione. Quindi pace e guerra sono, entrambi, due elementi positivi: non c’è il negativo in questo rapporto. Non c’è l’elemento negativo, quindi non c’è l’elemento contraddittorio – non c’è dialettica.

È un rapporto sostanzialmente statico, ma statico nel senso della simultaneità, nel senso cioè che le due forze sono sempre, costantemente attive; non è la stasi a cui uno potrebbe pensare quando gli venisse in mente l’annullamento reciproco di due elementi che entrano in rapporto. Se volete un paradigma di accompagnamento illustre per spiegare almeno in parte alcune delle implicazioni che sono presenti in questo ragionamento di Mühlmann, si potrebbe pensare al celebre saggio del Kant precritico (mi pare che siamo intorno al ’62-’63), quindi prima della “grande luce” degli anni Settanta. La chiama lui “la grande luce”: quindi il Kant precritico è il Kant del “buio”, il Kant “senza luce”; come se la Critica fosse una luce – questo è da vedere. (Brevissima digressione: Kant fonda e affonda il genus epistemologico, nel senso che tutto quello che viene dopo, in questa materia, è stato già previsto, annullato dallo stesso Kant. Fondare e affondare è, come dire, una cooperazione siglata per la prima volta dal grande Walter Benjamin nel saggio sul barocco, dove si dice che il grande autore fonda e affonda il genere). Allora, volevo dirvi che il testo di Kant che potrebbe formare un paradigma di accompagnamento è quello intitolato Tentativo di introdurre nella saggezza del mondo il concetto di quantità negative (Weltweisheit, non dice propriamente “filosofia”, dice “saggezza del mondo”, secondo lo stile settecentesco), che è un saggio precritico di grande importanza. Il Kant precritico è enormemente più interessante del Kant critico (mi permetto di indicare un saggio del 1768 sulle regioni dello spazio, un capolavoro di quattro pagine sul concetto di spazialità che Kant avrà cura di seppellire nelle banalizzazioni critiche che verranno di lì a poco). Ebbene, in questo testo di Kant – molto brevemente (…) – si distinguono due tipi di opposizioni: opposizione “logica” e opposizione “reale”. L’opposizione logica è quella che funziona in base al principio di non contraddizione; l’opposizione reale, invece, è quella esemplata sul modello “albeggia-tramonta”, vale a dire: ci sono due opposti che non sono in contraddizione tra di loro, che si escludono – sì – ma non nel senso della logica. Perché se io dico – dice Kant – “una cosa si muove e al tempo stesso non si muove”, qui incorro in un problema logico (io non posso concepire questa cosa che al tempo stesso si muova e non si muova – non la posso concepire, allora lì c’è contraddizione); se io, invece, parlo del sorgere del sole e parlo del tramonto, esprimo due cose che non possono stare assieme ma che rimangono assolutamente reali, in base all’osservatore: l’albeggiare non contraddice il tramontare, è semplicemente una cosa reale che non può prodursi mentre l’altra è in atto, tutto qui. Il termine kantiano – difficilmente traducibile, perché lui ha una terminologia in questa fase (in parte attiva anche dopo) che ha molte radici nella scolastica – è Realrepugnanz, “ripugnanza reale”, per dire, appunto, questa contraddizione non logica. Ora, cooperazione e stress, secondo me, sviluppano un tipo di contrapposizione di questa natura, cioè non è una contrapposizione logica ma è una contrapposizione reale. Pace e guerra non si escludono — tutto dipende dal punto di vista dell’osservatore.

Ancora sulla guerra, Raciti discute anche un testo di Sloterdijk.

Questo testo si chiama Luftbeben, che è una parola inesistente, sebbene calcata su una parola esistente che è Erdbeben e significa “terremoto”; Beben è “tremare”, Luft significa “aria”: “l’aria che trema”. E non c’è un corrispettivo (anche in tedesco è inventata la cosa). […] Sloterdijk non è molto tradotto, ma sicuramente è preso più in considerazione dei personaggi che ho citato prima; questo testo è stato tradotto da un editore, Meltemi, con il titolo Terrore nell’aria. È una cronistoria dell’uso dei gas nei conflitti mondiali – a partire dalla grande guerra fino alla seconda e procedendo poi oltre, attraverso la stagione del terrorismo – si tratta dell’uso di armi pervasive, l’esplosione delle frontiere nelle tecniche di aggressione, la capacità cioè di aggredire ovunque pervasivamente. Capacità – lui fa un suggestivo resoconto storico di questi fatti – che nasce in certi esperimenti sul gas durante la Grande Guerra e che si evolve fino alle strategie più sofisticate del terrorismo contemporaneo. Ma dal mio punto di vista la cosa importante di questo libro è un’altra, ed è il fatto che (…) a un certo punto l’autore citi quasi distrattamente lo studio di cinque ufficiali del Pentagono, i quali hanno messo in rete, appunto, una “ricerca” – chiamiamola così – in cui si ipotizza un uso bellico (e quindi offensivo) della ionosfera, cioè di quella porzione di cielo in cui si producono determinati fenomeni atmosferici. E questo allo scopo di determinare le condizioni climatiche di determinate nazioni in conflitto con gli Stati Uniti. Per cui, oltre all’esercito (il più importante esercito del mondo), questi “stati canaglia” devono subire anche un’alterazione spaventosa delle condizioni meteorologiche in cui vivono quotidianamente. (…).

E questo era il mio incontro con Peter Sloterdijk, il quale ha una sensibilità mediatica da far rabbrividire, perché è veramente capace di sentire le cose prima degli altri, ha dei sensi sovraeccitati; Sloterdijk è un uomo dai sensi scoperti e questo lo rende particolarmente idoneo a capire la contemporaneità, perché la contemporaneità non è fatta di concetti, è fatta di terminazioni nervose, è fatta di nervi a fior di pelle. E ci vuole un personaggio adeguato a questo genere di percezioni, che sono tutte percezioni alterate. Che cos’è la contemporaneità? È un’alterazione della percezione. Chi percepisce in maniera regolare – diciamo così – in maniera “classica”, non può essere un interlocutore della contemporaneità, ha perso il suo tram.

Raciti sposta quindi l’attenzione su Ballard, autore del noto romanzo Crash, e sul nazismo, cui è legata la questione del futuro, cui aggancia il concetto di “sensibilità”.

Crash è un testo che esce, se non ricordo male, nel ’72 o ’73, e ha un’importanza storica. Così come L’operaio di Ernst Jünger del ’32 è il testo che teorizza la questione della tecnica, Crash invece, quarant’anni dopo, teorizza la questione della tecnologia. È una differenza importantissima (…). Tecnica e tecnologia si distanziano come la sostanza e l’accidente, per usare dei concetti facilmente masticabili. Il problema della tecnologia è il suo carattere strumentale, cioè: mentre la tecnica strumentalizza i concetti, la tecnologia cerca di strumentalizzare la tecnica. Insomma la tecnologia ha il suo punto di massima estensione nel concetto di “ergonomia”: la tecnologia ergonomizza tutto, è la tensione a manovrare qualsiasi cosa, è l’arte del manovrare, è la manovra estesa fino ai suoi confini estremi. (…).

E così come L’operaio di Jünger mette al centro una condizione eroica che è quella del soggetto alle prese con il mondo delle macchine, James Ballard invece mette al centro una condizione erotica. Se scrivete “eroico” e “erotico”, mettete la “t” tra parentesi e spunta la stessa parola: ero(t)ico. Ballard è riuscito a scoprire il nucleo simbolico della tecnologia. Secondo un criterio spengleriano, se la tecnologia ha una profondità simbolica, se ha un sottofondo simbolico, se è capace – cioè – di esprimere ‘miti’, allora la tecnologia non è più, semplicemente, una fase di decadenza, ma è una fase – nei suoi termini – di Kultur, è una fase di civiltà. Allora possiamo parlare di “civiltà della tecnologia”, perché la sua casella simbolica sarebbe, appunto, la pornografia. Questo è il risultato concettuale del grande testo di Ballard che si chiama Crash. Ma nel sito io segnalo l’ultimo libro di Ballard, che si chiama Kingdom Come – che è un’espressione biblica (“Venga il Regno”) – tradotto da Feltrinelli come “Regno a venire”. È un libro molto importante, non certo per i suoi pregi letterari: non ho ancora avuto modo di vedere l’originale, ma la traduzione è veramente orribile (come tutte le traduzioni dei libri di Ballard, con l’eccezione, per fortuna, di Crash); comunque Ballard non è un grande scrittore, non è un grande prosatore; io ho avuto modo di leggerlo in lingua originale: secondo me è uno che utilizza la letteratura per veicolare determinati concetti, è un saggista che si camuffa da letterato. (…). Ma il punto è un altro: lui voleva fare una filosofia dei centri commerciali, voleva edificare un concetto di “centro commerciale”. (…). Il libro cerca di trovare il senso di queste cose; questa “cosa” che è il centro commerciale. Tutta una serie di considerazioni si tramuta allora in una collana di straordinari aforismi, alcuni dei quali meritano sicuramente di essere letti e meditati. Ad esempio la la contemporaneità definita come «un eterno presente fatto di compere»; oppure questo: «lo shopping è il modello di tutti i comportamenti umani, totalmente privo di rabbia o emozioni»; oppure l’idea di una «città-negozio», anziché di una «città-stato». (…). Poi: «La musica di sottofondo rimarcava che lì dentro regnava un tipo di sicurezza da aeroporto», straordinaria questa. «È come andare in chiesa, solo che qui ci si può andare ogni giorno e prendere delle cose da portarsi a casa». (…). Poi c’è questa cosa strana: «La mascella volitiva» – si parla di un personaggio ritratto in una fotografia – «mi fece pensare a Werner von Braun in posa accanto a un missile Redstone in Arizona, con un passato nazista alle spalle e un futuro in attesa». Sembra un’affermazione senza senso, invece è un’affermazione molto sensata e potrei elencarvi tutta una serie di casi in cui personaggi superstiti da questa “avventura dello spirito” che fu il nazismo hanno avuto un futuro radioso, hanno avuto in mano l’idea stessa del futuro. A partire da Ernst Jünger, il quale ha potuto profetizzare certe situazioni che si sarebbero spalancate di lì a poco perché affondò le sue radici esistenziali nell’esperienza del nazismo.

Bellissimo anche un altro libro, di un signore ancora più strano dei precedenti che vi ho citato e che si chiama Uwe Day, un libro sulle competizioni sportive nel periodo nazista (le competizioni automobilistiche). E pochi sanno che l’automobilismo sportivo non nasce in Inghilterra, come si è sempre creduto; le competizioni sportive nascono in Germania. Sono ancora di meno le persone che sanno che il regime impegnò energie notevolissime a sostegno di queste competizioni. Perché il motorismo viene intuito dal nazismo come la forma di sviluppo tecnico più potente. Cosa che verrà confermata. Non c’è niente di paragonabile all’incremento del traffico internazionale, è l’indice di incremento più alto che ci sia. Dunque la valorizzazione del motorismo attraverso le competizioni – ma evidentemente attraverso le competizioni si voleva influenzare la quotidianità motoristica (…) – è un fatto che andrebbe studiato, che andrebbe ripercorso nei suoi dettagli. Sta di fatto, tuttavia, che l’esperienza del nazismo aveva il futuro in mano. L’esperienza del nazismo è l’esperienza del futuro. Mi sembra già di sentire l’obiezione più forte e più semplice: “Ma sono stati i primi loro a sparire”. Lo dite voi. È sparito un fenomeno storico, ma se andate a ricostruire tutto quello che questi signori hanno concepito (a partire dal concetto di lavoro), se andate a ricostruire i retroscena di questo regime, vi renderete conto che l’ottanta percento delle cose di cui disponiamo noi oggi furono sperimentate da loro. Penso al cinema, alla propaganda ecc. Non dovete fare l’errore madornale di pensare che il nazismo fu semplicemente una macchina da guerra; quello era un aspetto del nazismo. Andate a studiare l’aspetto sociale del nazismo, quello che fece il nazismo in patria, come organizzò il lavoro, come strutturò il sistema pensionistico (il nostro sistema pensionistico si sta progressivamente avvicinando alle sperimentazioni naziste, è un’approssimazione lenta e inesorabile). Tutte queste cose che danno l’idea di una macchina tentacolare noi le riduciamo alla potenza d’urto delle truppe hitleriane – che c’è stata, ovviamente. Ma per questo aspetto vale quello che si è detto dei Romani: “Vincevano dappertutto perché non avevano nemici”; o la stessa cosa che si dice adesso a proposito degli Americani: c’è una straordinaria battuta di Luttazzi che dice – ricorderete – “Gli Americani non andranno mai in Corea, perché lì le armi ce le hanno davvero”. Ma torniamo all’idea secondo cui il nazismo sarebbe il regime depositario del futuro. Credetemi, il futuro non è una vera risorsa: non dovete valutare il futuro come una prospettiva interessante. Il nazismo ha molto a che vedere con la sperimentazione del futuro, di ciò che è stato e sarà il futuro. La concezione del futuro è una concezione nazista. (…).

Io dico semplicemente questo: la dimensione del futuro è una dimensione nazista. (…). Guardi che dire questo è una limitazione molto precisa. Perché nessuno la condanna a vivere nella dimensione del futuro; lei la può ignorare, anche se le sue e le nostre possibilità appartengono al futuro. Ognuno di noi ha delle possibilità, ma il problema, come dice Kafka, è sapere sotto quale pietra stanno. (…). Secondo me non c’è stata una percezione antica del futuro. E quando dico “antico” non mi rifaccio semplicemente alla civiltà greco-romana, la quale peraltro era assolutamente priva del senso del futuro. (…). Vede, molto semplicemente: per avere una idea di futuro, bisogna avere una idea del tempo. Spetta a lei l’onere di spiegarmi quale fosse la concezione romana del tempo (lei mi può spiegare quale fosse la concezione spaziale dei romani, ma non quella del tempo). Distinguere lo spazio dal tempo è un principio di salute mentale; perché il pensiero nasce contro il tempo. (…). [Ad esempio], il Lebensraum non è una nozione spaziale. È una falsa nozione spaziale, lo dice la parola “Leben” davanti a “Raum”, lo dice quella parola lì: è una possibilità della vita, non è uno spazio, è il contrario di uno spazio. Lo spazio non è abitabile. Lo spazio abitabile si dice ‘luogo’. (…). Comunque, distinguere spazio e tempo (…) è un dispositivo di salute mentale. (…).

Dicevo semplicemente che la prospettiva del futuro è un prospettiva temporale e, come tale, già la si limita concettualmente. Oltre a ciò, è una particolare struttura, non è neanche il tempo in extenso. Questo per dirvi che il futuro non è una gran cosa. Vorrei trasmettervi questa sensazione che ho io, che mi abita; la sensazione, cioè, di non avere uno sguardo interessato sul futuro. Perché il futuro è semplicemente il futuro delle nostre possibilità; cioè il modo, prima concettuale e poi fisico, di bloccare ogni passo della nostra vita. Ci consentono soltanto dei passi virtuali: io vi invito a fare dei passi reali. Non è possibile muovere passi reali in una dimensione come quella del futuro, perché il futuro è solo possibile. Lei vuole muoversi? Bene, allora deve evitare la dimensione del futuro. È questa la sensazione – e sono pronto a spiegarvi perché parlo di “sensazione” – che vorrei trasmettervi.

Parlo di sensazione perché non c’è soltanto la materia e lo spirito. C’è un “terzo incomodo” sul quale io ho lavorato parecchio, ed è il polo della sensibilità. Il sensibile. Guardate che quello che noi chiamiamo “corpo”, per esempio, non si situa né a livello materiale né a livello spirituale: il corpo appartiene a una regione intermedia che si chiama “sensibilità”. Tutte le forme di pensiero contemporaneo, a partire da Cartesio, sono dualistiche. Perché sono dualistiche? Perché al momento di contrapporre qualcosa allo spirito contrappongono la materia e nella materia includono la sensibilità. E non fanno alcuna distinzione tra sensibilità e materia. Vi invito a leggervi un testo paradigmatico, la Sesta meditazione di Cartesio, in cui si dice chiaramente che sensibilità e materia sono la stessa cosa e che non vale assolutamente la pena di andare a distinguerle. Ebbene, c’è invece tutta una tradizione sommersa (…), in Occidente, che si dice “intermediazionista”. Qual è lo stile intermediazionista? Quello che spezza il dualismo attraverso l’inserimento di un terzo elemento, cioè la sensibilità. I Greci lo sapevano perfettamente, tant’è che i Greci dicono la materia ΰλή, la sensibilità άίσθησίς e lo spirito πνέυμά. Ora, un personaggio come Paolo di Tarso – che è un personaggio stranissimo, dotato di risorse inesauribili e tendenzialmente psicopatico, come illustrò Nietzsche – è quello che a un certo punto, in alcune zone delle sue lettere – e invito tutti a leggerle, perché sono un caposaldo della nostra tradizione occidentale –, soprattutto nelle due lettere ai Corinzi, parla di un “corpo glorioso”, che è il corpo della resurrezione. Il corpo della resurrezione non è materiale ma neppure spirituale – e ci tiene a dirlo, questo – ossia è una cosa che tu vedi, che tu tocchi, come tutto ciò che è sensibile. È la materia che non tocchi, come del resto lo spirito. Questo corpo glorioso è il portato specifico del Cristianesimo; perché guardate che la questione dell’immortalità dell’anima non è affatto cristiana – non lo è per niente – è piuttosto una invenzione ellenistica. E Paolo, opportunamente, cosa fa? Distingue tra “corpo psichico” e “corpo pneumatico”, cioè tra un corpo affetto dall’anima – e per questo destinato alla corruzione – e un corpo affetto dal πνέυμά – e quindi destinato alla resurrezione –; e la differenza tra questi due corpi è anche terminologica, perché il corpo dominato dall’anima è σάρξ, “carne”, mentre il corpo dominato dal πνέυμά si chiama σόμα. La resurrezione paolina non è carnale, è somatica. Questo per dirvi che c’è un modo per spezzare il dualismo imperante, un modo che le tecnoscienze, secondo me, non percepiscono nella sua importanza radicale. Già, perché (…) il nesso mente-cervello non ammette il terzo incomodo; lo ammette soltanto in una forma che è sinonimica, cioè non ontologica. Le dottrine intermediazioniste, invece, sono dette “ontologie sottili”. Io rivendico il senso della αίσθησις greca – che indicava un tertium tra mente e cervello (e non ha niente a che vedere né con l’una né con l’altro, essendo del tutto autonomo) – il cui patrocinatore mitico è Apollo, e non a caso è il dio dell’arte nella vulgata ministeriale. Apollo è il dio della sensibilità, cioè il patrocinatore catasterizzato, astrale, di questa intermediarietà offerta dal polo sensibile. Studiare Apollo significa quindi introdursi in questo tunnel tra spirito e materia, un percorso rimesso in gioco dal Cristianesimo nella sua accezione paolina — badate bene: un’accezione censurata. Perché l’impostazione cristiana (questi sono i paradossi della storia) è tornata gnostica, è tornata docetista. Tutte le correnti gnostiche sono improntate al docetismo; dire “docetismo” significa ipso facto “gnosi”. Sapete cosa dice il docetismo? Dice che Cristo era corpo in apparenza – δοκέιν in greco significa “apparire” – e che non ha sofferto un accidente; il docetismo è dualista – è il precursore di tutti i dualismi – perché ammette semplicemente materia e spirito. La materia è demoniaca, è in mano agli “Arconti” (gli Arconti sono quei terribili dèi minori responsabili di questo mondo fatto di cose malvagie, improntato al male); e lo spirito è la potenza che deve liberare il soggetto dal potere degli Arconti. Qui penso, per esempio, a un altro settario gnostico che ha un grande fascino e che si chiama Carpocrate. Non so se avete mai sentito parlare di Carpocrate e dei Carpocraziani. Carpocrate era un settario gnostico – probabilmente mai esistito, ma esistevano i Carpocraziani (lui, forse, come personalità storica non ha molta consistenza) – che aveva elaborato un sistema degno del massimo interesse. Aveva una concezione economica, materiale dell’anima. Il suo progetto era quello di sottoporre il corpo, dominato dall’anima, a ogni genere di trasgressione; perché a forza di trasgressioni quell’ispessimento formato dall’anima veniva, come dire, limato progressivamente, fino a scomparire del tutto. L’anima era cioè un ispessimento da limare senza sosta, attraverso le trasgressioni; rinunciare al peccato significava aprire la porta alla resurrezione e il punto era questo: che si risorge solo nella carne, mentre il problema era risorgere nello spirito. Per risorgere nello spirito bisogna annullare l’anima e l’anima la si annulla attraverso il consenso a ogni sorta di turpitudini: i Carpocraziani erano dei settari che praticavano qualsiasi eccesso orgiastico. E questo per significare il legame – molto stretto – che c’è tra spiritualità e erotismo. Guardate che l’erotismo non riguarda la sensibilità e il corpo, ma piuttosto ha molto a che vedere con lo spirito. Non c’è bisogno di me per dire queste cose: le sapete tutti. L’erotismo è una forma di censura del corpo. Se ci riflettete almeno un po’, vi salta agli occhi il fatto che l’erotismo è una forma di ritardo del rapporto col corpo, è una forma di allontanamento delle esigenze del corpo a favore delle esigenze dello spirito. (…). Il problema della αίσθησις è un problema pagano per eccellenza, e il Cristianesimo non conosce – non vuole conoscere – estetiche. Il Cristianesimo è molto meglio disposto verso la pornografia che non verso l’estetica, perché la pornografia rimanda allo spirito, l’estetica al corpo. Credo che le filosofie contemporanee non abbiano raccolto la grande eredità dell’intermediazionismo. Per questo io ce l’ho un po’ con le riprese contemporanee del dualismo, l’ultima delle quali è quella che impazza nelle università, nelle riviste, nella pubblicistica, in televisione, dappertutto, cioè il nesso mente-cervello. (…).

L’immagine è l’espressione della sensibilità. È il modulo espressivo del terzo polo. Il fenomeno dell’iconoclastia che tutti conoscete è stato riportato in auge da Lutero, nei confronti del quale il Cristianesimo di confessione cattolica ha preso le distanze, ma sono distanze fasulle: in realtà il Cristianesimo di confessione cattolica è vicinissimo a Lutero (al di là delle questioni storiche che riguardano lo scandalo delle indulgenze – ma sono questioni storiche, non hanno molto valore nell’economia dei concetti). In realtà Lutero è perfettamente integrato nella struttura cristiana e nel suo sviluppo attuale, malgrado il fatto che Lutero si alimentasse alle radici paoline e agostiniane. Ma queste radici vengono nel fatto demonizzate. Paolo è il demone del Cristianesimo. (…).

[Infatti] gli dèi greci si vedevano, e avevano dei corpi, — leggermente fuori misura rispetto ai nostri. Che (…) posso dire? Anziché un metro e ottanta o un metro e settantotto, due metri o poco più (cose di questo genere). Proporzioni trascurabili. Erano sensibilmente presenti, tant’è che Diomede può ferirli: in un passaggio [dell’Iliade] addirittura riesce a ferire Ade, il dio della morte – lo ferisce. Ferisce la Morte. Sono corpi sensibilmente dati, che la linea spiritualista e docetista del Cristianesimo ha soppresso e che Paolo, invece, cerca di mantenere. C’è questo “corpo glorioso” che risorge con delle caratteristiche appena un po’ dissimili da quelle del corpo materiale. Appena un po’ dissimili – e ci sarebbe tanto da dire su questo “appena un po’” (sarebbe la gioia di una speculazione quasi senza fine). Questo “appena un po’” riguarda sia il corpo glorioso di Paolo sia la lieve difformità del corpo di Apollo rispetto al corpo di qualsiasi essere umano. Una lieve difformità. (…). Molto umilmente, la mia grecità è quella che leggono tutti nei poemi omerici: lì si parla di divinità che sono lievemente dissimili; e in quello scarto minimo si apre un abisso. Che è l’abisso dell’estetica. Guardate che Hegel ha scritto delle pagine importantissime su questa natura del corpo degli dèi greci (io ho cercato di studiarle in una certa occasione). Dice delle cose illuminanti. Parla proprio di questa lieve difformità che dà tutto il senso della corporeità. E che il Cristianesimo di marca gnostica ha completamente ignorato e censurato. (…).

Mi viene in mente, per esempio, una pagina de La montagna incantata, in cui l’ottimo Settembrini dice ai due discepoli: State attenti a quel signore lì, che è Leo Naphta, il gesuita, perché quel signore lì propaganda una cultura della morte e la morte significa voluttà. Perché la morte (e qui c’è un gioco di parole intraducibile) löst und erlöst, cioè “scioglie e redime”. Scioglie da qualsiasi vincolo di costume e redime dalla stessa carnalità. È la “mala redenzione” (non la “redenzione dal male”, dice Mann attraverso Settembrini, ma la “mala redenzione”). Ebbene le tanatologie, secondo me, hanno questo vizietto di fondo, di essere un po’ troppo dalla parte dello spirito e poco da quella dei corpi. Parlo di corpi intesi come “immagine”, come είδωλον, il termine tecnico greco che denota il “corpo-immagine” o corpo sensibile. Con questi correttivi posso essere un tanatologo. (…). L’ultima cosa (…). Il Cristianesimo che ammette la resurrezione è un Cristianesimo della molteplicità, perché il Cristianesimo ritrova la molteplicità del politeismo, la molteplicità dei corpi, attraverso l’ipotesi della resurrezione. Che però storicamente negherà. La nega nonostante il Credo. Il Credo dice: “Al terzo giorno risorge”; ma il Credo è lì non so per quale motivo, perché è la cosa cui non crede il cristiano. Il cristiano non ci crede per niente nella resurrezione. Non ci crede per niente perché è integralmente docetista. Lo scandalo del Cristianesimo – lo scandalo paolino – è questo, è l’accento sul corpo. Che in Paolo è ancora un accento greco. (…). È una teologia della resurrezione. E quindi una teologia del corpo.

Uno studente (Cateno Tempio) chiede al Professore se con Paolo il futuro entri “prepotentemente nel tempo cristiano, cioè come «tempo dell’attesa», «tempo della πάρουσιά»” e dunque se il nazismo si riproponga “come l’anti-ebraismo riprendendone strettamente i canoni”, dato che c’è sempre un tempo dell’attesa: il tempo dell’attesa del messia e il tempo dell’attesa del Führer come “salvatore” della patria (due futuri possibili).

Dunque; intanto lei sa benissimo che Paolo era un giudeo. La questione apocalittica è il momento nodale della esegesi paolina; perché si tratta di capire fino a che punto Paolo fosse influenzato da questo genus letterario che è l’apocalittica. Nell’Ebraismo c’è la faccenda dell’attesa, che il Cristianesimo non eredita. Non concettualmente perlomeno. Siccome però il Cristianesimo è un’invenzione ebraica, questi personaggi elaborarono le loro strategie dottrinali utilizzando, se non concetti, almeno giri di frase caratteristici. Tuttavia il messianismo non è una questione paolina, o lo è solo nella misura in cui Paolo – e perdonate l’espressione “nella misura in cui” – paga il suo debito alla tradizione ebraica, evidentemente inestirpabile. (…) Che cosa mi vuole fare dire? Che il problema del futuro è un problema per eccellenza ebraico? Sì. Che il problema del futuro è un problema del nazismo? Sì. Tragga le sue conseguenze.

I temi toccati poi da Raciti nella stessa occasione furono in buona sostanza ancora due: l’aforisma e il tempo.

A proposito di aforismi, devo fare una citazione. James Ballard è autore di questo aforisma – ve lo devo leggere –: «La resurrezione è l’ultima frontiera dell’effetto placebo». È una cosa veramente perfetta: questo è un aforisma. Per raggiungere queste vette bisogna disporre di mezzi non comuni. Secondo me l’aforisma è legato a doppio filo all’esperienza del pensiero e del filosofare, perché l’ultimo dei letterati o il primo degli scienziati (che è un po’ la stessa cosa), quando gli capita l’avventura di forgiare un aforisma, in quello stesso istante pensa. Avverte la percezione di un pensiero in atto. Il letterato diventa pensatore attraverso l’aforisma. Lo scienziato diventa pensatore attraverso l’aforisma. Questo perché? Perché evidentemente l’aforisma ha qualcosa (…) di intrinsecamente legato al pensiero, come se il pensiero non potesse che esprimersi per aforismi. E questa (…) mi sembrava una proprietà da rivendicare alla filosofia e mi sembrava anche un mezzo traverso il quale la filosofia poteva introdursi in domini ‘nemici’, come quello della letteratura o quello dell’epistemologia. Ci sono tanti esempi di scienziati costruttori di aforismi: Einstein ci ha lasciato degli aforismi (alcuni sono anche notevoli). La mia idea è che l’aforisma fosse in qualche modo connaturato all’esperienza del pensiero. Perché in prima battuta il pensiero si esprime come aforisma; poi, ovviamente, interviene un’altra scelta: quella di sciogliere l’idea in una prosa concettuale o in un altro sistema di articolazione del pensiero; ma credo che tutte queste modalità di articolazione del pensiero siano successive all’aforisma, e che l’aforisma – comunque – le preceda tutte. Le preceda come il lampo precede il tuono, nello stesso identico rapporto. (…).

Mi guardo bene dal fare affermazioni del tipo: il tempo non esiste. Io stesso sono la rappresentazione, la sceneggiata della temporalità, no? Come tutti, del resto. Non ho trovato il modo di svisarne gli effetti. Non è questo il punto. Proprio perché c’è – e ne è piena la becera quotidianità – è inutile occuparsene. Bisognerà trovare delle strategie alternative non alla temporalità che c’è, ma alla temporalità che non ci interessa. Certo, non ci interessa perché parlare della temporalità significa parlare della quotidianità. Ora, il pensiero è la fuoriuscita dalla quotidianità. La filosofia di Husserl è una grande allegoria della quotidianità; e a che è servita tutta quell’opera di pensiero? A dire che non si esce della temporalità. Tante grazie, potevi impiegare diversamente le tue doti. E il suo allievo è assolutamente in linea con il maestro: non c’è nessuna Kehre, come tu sai – non c’è nessuna svolta. Uno degli ultimi testi di Heidegger si chiama Il mio cammino nella fenomenologia, dove dimostra a chiare lettere di non esserne mai uscito. Ci fu quella scaramuccia a proposito della compilazione della voce [fenomenologia]. Ma insomma è normale: sono cose umane. Il pensiero ha ben altra stabilità. Io dico semplicemente questo – non nego affatto (come potrei? sarei veramente una mosca — rimango sempre un insetto, però non sono quella mosca lì), che il tempo c’è e incornicia la nostra squallida contemporaneità. Penso solo che il pensiero abbia altro a cui pensare. Magari soltanto a mo’ di fregio su questa squallida contemporaneità, ecco. (…). È un’operazione di stile. Il pensiero è un’operazione di design.

Viene in mente, all’eco dell’ultimo pensiero, il Dizionario ragionato di Architettura e Urbanistica (Raum ohne Zeit, Giarre 1997), una raccolta di aforismi di Raciti, in particolare l’aforisma titolato “Ambiente”:

A misura che le acque della politica mondiale si ritirano, riaffiora tutto un fondale naturale da tempo dimenticato o metaforizzato. La crisi degli apparati ideologici lascia il campo libero a inondazioni, terremoti e cataclismi di crescente violenza.

Politica e potere sono due legati armonizzati dalla teoresi. Per mezzo di essa è possibile leggere anche politica e potere nel modo più audace, forse quindi il più sincero. Impossibile, forse però, estraniarsi da un punto di vista per cogliere ciò dal quale il punto di vista è generato, il potere.

Autori e opere citati: Ludger Lütkehaus, con i suoi Nichts e Natalität; Heiner Mühlmann, MSC; Kant, Tentativo di introdurre in filosofia [nella saggezza del mondo] il concetto di quantità negative (1763), in Scritti precritici (ed. Laterza); Sloterdijk, Luftbeben (trad. it. Terrore nell’aria); Jünger, L’operaio; Ballard, con i suoi Crash e Kingdom Come (trad. it. Regno a Venire); Cartesio, Sesta meditazione, in Meditazioni metafisiche (Opere complete, vol. 2, ed. Laterza); Mann, La montagna incantata; Heidegger, Il mio cammino nella fenomenologia (in Tempo ed Essere).