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La mente «bicamerale»

Un libro raro, unico. Dall’introduzione sembra un manuale sui generis di filosofia della mente, la prima parte assomiglia ad un trattato di psicologia del mondo antico, la seconda parte un saggio di storia e archeologia, l’ultima pare proporre invece una teoria sociologica contemporanea. Dalla coscienza al cervello, dalla poesia antica agli dèi, dalle epigrafi alla filosofia greca e semitica, dalla schizofrenia e l’ipnosi agli oracoli templari; nell’insieme un saggio – nel senso di prova letteraria – di scienza pura. Quindi, di filosofia.

Con The origin of consciousness in the breakdown of the bicameral mind, edito nel 1976 e tradotto in italiano la prima volta nel 1984 e poi pubblicato in una seconda edizione ampliata nel 2002 da Adelphi (composta di 582 pagine) col titolo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Julian Jaynes, docente per lungo tempo di psicologia alla Princeton University, ha composto un capolavoro.

Mondo di visioni non vedute e di silenzi uditi è questa regione inconsistente della mente! E ineffabili essenze questi ricordi impalpabili, queste fantasticherie che nessuno può mostrare! E quanto privati, quanto intimi! Un teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri, luogo infinito di delusioni e di scoperte. Un intero regno su cui ciascuno di noi regna solitario e recluso, contestando ciò che vuole, comandando ciò che può. (J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi 20022, p. 13)

Ecco la coscienza, per Jaynes. Nell’Introduzione si dà un breve ma davvero efficace resoconto delle interpretazioni della coscienza nella filosofia della mente, per poi dire che bisogna cominciare da zero in questo campo di indagine.
Il Libro primo, “La mente dell’uomo”, si compone di diversi momenti. Nel primo di questi, l’autore intende scoprire cosa la coscienza non sia: non è una copia dell’esperienza, non è necessaria per formulare concetti, né per l’apprendimento (anzi lo ostacola spesso), tanto meno è necessaria per il pensiero o la ragione. Sgombrato il campo da questi fraintendimenti, la coscienza si rivela essere un linguaggio metaforico col quale comprendiamo la realtà delle cose. Questo è il secondo momento dell’analisi: quali sono i caratteri della coscienza? Essi vengono indicati nei seguenti.
1. La spazializzazione. Uno dei pilastri del tempio della coscienza è costituito dalla nozione di «collocamento», l’habitat del pensiero metaforico:

Il sostrato metaforico del pensiero è (…) qualcosa di molto complesso, e difficile da districare. Ma ogni pensiero cosciente che voi avete leggendo questo libro può essere ricondotto da una tale analisi ad azioni concrete in un mondo concreto. (p. 85)

2. La selezione. Il semplice presupposto che permette alla mente cosciente di non doversi occupare di tutto ciò che i sensi percepiscono:

Consideriamo per esempio l’immagine che abbiamo dei nostri genitori com’erano quando eravamo piccoli. Se quest’immagine è fatta soprattutto dei loro insuccessi, dei conflitti nascosti, delle illusioni è una cosa. Se invece li vediamo com’erano nei loro momenti più felici, nelle loro gioie, ne risulta un mondo del tutto diverso. Scrittori e artisti fanno in modo controllato ciò che «nella» coscienza accade in maniera più disordinata. (p. 86)

3. L’analogo «io». La metafora che abbiamo di noi stessi.
4. La metafora «me». Un’immagine autoscopica di sé, che osserva l’analogo «io».
5. La narratizzazione. L’assegnare delle cause al nostro operare, a prescindere che esse siano vere, false, neutrali o ideali.
6. La conciliazione. Quel processo naturale della percezione per mezzo del quale un percetto simile ad uno conosciuto, viene assimilato a quest’ultimo. Ovvero «il fare nello spazio mentale quel che la narratizzazione fa nel tempo mentale o tempo spazializzato» (p. 90).
In un momento successivo, Jaynes volge lo sguardo all’antichità. La mente dell’Iliade viene descritta con dovizia di particolari storici e psicologici, ma soprattutto etimologici. Le parole greche e paleo-greche psyché, thumos, phrenes e noos – indicanti tutte diverse parti fisiche o sensi concettuali dell’anima, dello spirito, della mente – vengono analizzate e rilette secondo l’ottica interpretativa che punta l’attenzione su un’altra parola: mermera, che significa «in due parti». Il verbo corrispondente, apprendiamo, è mermerizo, «sono diviso in due parti riguardo a qualcosa». Dalla traduzione di questo verbo deriva tutta l’interpretazione di Jaynes.

I moderni traduttori, nel desiderio di dare una presunta qualità letteraria alla loro opera, usano spesso termini moderni e categorie soggettive che non rendono giustizia all’originale. Mermerizo viene così tradotto erroneamente come «io pondero, penso, ho la mente divisa, sono incerto, turbato, cerco di decidere». Sostanzialmente, però, esso indica un conflitto su due azioni, non su due pensieri. È un verbo che si riferisce sempre al comportamento. Esso è usato varie volte per Zeus (…). Del conflitto si dice spesso che ha luogo nel thumos, o qualche volta nelle phrenes, ma mai nel noos. L’occhio non può dubitare o essere in conflitto, come potrà invece la mente cosciente, che sarà inventata poco dopo. (p. 96)

Ecco che per i Greci dell’Iliade il pensiero cosciente non esiste. Ha da venire. La divisione cui ci si riferiva sta nella mente: la mente micenea era divisa in due, era bicamerale.
Jaynes spiega in che senso questo è vero nel quarto momento di questa prima parte del volume.

La volizione, i progetti, l’iniziativa sono organizzati senza alcuna coscienza e vengono quindi «detti» all’individuo nel linguaggio che gli è familiare, a volte con l’aura visuale di un amico a lui caro o di una figura autorevole o di un «dio», altre volte da una semplice voce. L’individuo obbediva a queste voci allucinatorie perché non riusciva a «vedere» da sé che cosa fare. (pp. 101-102)

Poiché sappiamo che la cultura greca divenne rapidamente una letteratura della coscienza, possiamo considerare l’Iliade un’opera situata alla grande svolta dei tempi, una finestra su quei tempi privi di soggettività in cui ogni regno era essenzialmente una teocrazia e ogni uomo era lo schiavo di voci udite ogni volta che insorgeva una situazione nuova. (p. 110)

Le prove che lo psicologo porta a suffragio della propria teoria sono disseminate in tutto il resto dell’opera. Difatti, mentre nella restante parte del primo libro viene descritto nel dettaglio il fenomeno bicamerale (carattere delle voci, localizzazione e loro funzione) nel secondo libro si procede all’indagine storica dei fenomeni bicamerali dell’antichità, nel terzo all’indagine dei residui bicamerali nel mondo moderno.
Ma prima di passare oltre è bene soffermarsi sugli altri momenti di questa prima parte. Nel quinto in buona sostanza viene spiegato il fenomeno bicamerale tramite alcuni passaggi.
Il più importante di essi consiste nell’idea che coloro i quali oggi soffrono della patologia definita come schizofrenia possano essere utilizzati come ottima analogia degli uomini bicamerali risalenti circa al XI-VIII secolo a.C. ossia quelli pre-coscienti. Risulta inappropriato ricostruire tutta la sottile ancorché solida argomentazione di Jaynes nel mostrare una certa quantità di prove che mostrano la bontà del parallelo fatto. Anzi, la lettura è coinvolgente quanto puntuale.

Se è esatta la nostra ipotesi che le allucinazioni degli schizofrenici sono simili alle direttive date dagli dèi nell’antichità, in entrambi i casi dovrebbe esserci una qualche stimolazione fisiologica comune. Ora, io sostengo che questa stimolazione consiste semplicemente in situazioni di stress. (…) Nelle persone predisposte a psicosi (…) la soglia è un po’ più bassa [rispetto alle persone normali] (…). Nelle ere della mente bicamerale, possiamo supporre che la soglia di stress per le allucinazioni fosse molto, molto più bassa di quanto non sia nelle persone normali o negli schizofrenici di oggi. (…) Qualsiasi cosa cui non si potesse far fronte sulla base dell’abitudine, ogni conflitto fra lavoro e affaticamento, fra attacco e fuga, ogni scelta di un capo a cui obbedire o di una cosa da fare, qualsiasi cosa che richiedesse una decisione era sufficiente a causare un’allucinazione uditiva. (p. 122)

Gli altri passaggi fondamentali riguardano, in primo luogo, il fatto che la divinità antica non fosse altro che la manifestazione – poi rappresentata tramite statue e nomi – di voci allucinatorie autoprodotte dall’individuo e in qualche modo socializzate, condivise (secondo teorie psicologiche abbastanza confermate); e, in secondo luogo, il fatto che tale forma di “possessione” divina si tramutasse in una precisa gerarchia sociale, a capo della quale era il soggetto (che tale, tuttavia, non può essere definito) che interpretava i messaggi “divini” e al quale tutti gli altri prestavano orecchio. Ecco – a questo proposito – un altro esempio di analisi etimologica davvero euristica:

Consideriamo che cosa significa ascoltare e capire qualcuno che sta parlando con noi. In un certo senso noi dobbiamo diventare l’altro; o piuttosto, lasciamo che l’altro diventi per un breve istante parte di noi. Per quell’istante sospendiamo la nostra identità, dopo di che rientriamo in noi stessi e accettiamo o rifiutiamo ciò che egli ha detto. Ma quel breve istante di ozio della nostra identità è la natura della comprensione del linguaggio; e se quel linguaggio è un ordine, l’identificazione della comprensione diventa l’obbedienza. Udire è in realtà una sorta di obbedienza. Anzi, entrambe le parole derivano dalla stessa radice e in origine erano probabilmente una stessa parola. Ciò vale in greco, latino, ebraico, italiano, inglese, francese, tedesco, russo: la parola latina obœdire è un composto di ob + audire, udire stando di fronte a qualcuno. (126)

Il sesto ed ultimo momento è dedicato alla spiegazione neurobiologica della scissione. Nella moltitudine di scoperte e analisi nelle quali il lettore viene immerso, testimonianza della mente bicamerale – e della possibile collocazione delle allucinazioni in uno dei due emisferi cerebrali – può essere il fatto che

l’emisfero destro è più impegnato in compiti sintetici e spaziali-costruttivi, mentre l’emisfero sinistro è più analitico e verbale. L’emisfero destro, forse come gli dèi, vede un significato nelle parti solo all’interno di un contesto più ampio; esso guarda alle totalità. L’emisfero sinistro o dominante, come il lato umano della mente bicamerale, concentra invece la sua attenzione sulle parti. (p. 150)

L’idea che in mente – nostra, cosciente e non più allucinata (e tuttavia non sempre, per fortuna) – si costruisce alla fine di questa prima parte è una nuova visione del mondo antico: prima dell’alba della civiltà vi sono uomini allucinati che scoprono al proprio interno e in loro stessi la divinità, società che vengono strutturate in modo – direi – uditivo, statue e simboli che rappresentano occhi spalancati e bocche socchiuse come a voler sussurrare il comando divino, popoli che adorano il proprio inconscio. Una meraviglia.
Il Libro secondo (“La testimonianza della storia”) è un viaggio incantevole attraverso mondi ora sommersi da altri o scomparsi per sempre, mondi nei quali le tracce ritrovate mostrano esservi state menti bicamerali. Da Gerico a Ur, dagli Ittiti agli Olmechi e i Maya, dalle civiltà andine agli Inca, viene mostrata – tramite reperti archeologici e filologici come tombe, statue, epigrafi ed incisioni – la distanza tra la nostra mente e quella degli abitatori di quei luoghi. Invece che in sei, questa seconda parte del volume si può dividere in tre momenti. Nel primo Jaynes illustra i diversi tipi di teocrazie bicamerali che sono esistite, nel secondo si registra il passaggio dalla bicameralità alla mente cosciente e nel terzo si analizza questo passaggio in tre diverse culture: la mesopotamica, la greca e la semita.
Le principali forme di teocrazia furono due: la prima e la più diffusa è quella del «re-amministratore», in cui in realtà gli dèi erano dei padroni (si ebbe in Mesopotamia, oltre che a Micene, in India, in Cina e forse in America Centrale); la seconda è invece la teocrazia del «re-dio», nella quale la divinità è incarnata proprio nella persona del re (si ebbe in Egitto, nei regni andini e in Giappone).
Ad un certo punto «è come se le voci avessero difficoltà a farsi udire» (p. 241): solo così, non a caso, poté nascere la legge.

Nel II millennio a.C. (…) la situazione mutò radicalmente. Guerre, catastrofi, migrazioni di popoli diventarono i caratteri principali. Il caos oscurò la sacra luce del mondo inconscio. Le gerarchie vennero meno. E fra l’atto e la sua sorgente divina si insinuò l’ombra, la pausa profanatrice, lo spaventoso allentamento che rese gli dèi infelici, queruli, gelosi. Finché, a un certo momento, la loro tirannia venne rimossa dall’invenzione, sulla base del linguaggio, di uno spazio analogale con un analogo «io». Le strutture minuziosamente elaborate dalla mente bicamerale erano state scosse e ciò diede origine alla coscienza. (pp. 250-251)

Ebbe inizio il commercio, nacque l’inganno e la scrittura prese sempre più spazio a danno dell’autorità divina. Come ebbe luogo l’insorgenza della coscienza? Probabilmente a seguito – e non il contrario – dell’osservazione delle differenze tra gli altri e sé.

La tradizione filosofica secondo la quale è logico inferire l’esistenza di altre menti dalla nostra, formula il problema alla rovescia. Noi possiamo prima supporre inconsciamente altre coscienze, e poi inferirne per generalizzazione la nostra. (p. 266)

L’ultima parte di questa sezione centrale è dedicata alle tre aree del mondo in cui vi fu questo rapido mutamento che dal crollo della mente bicamerale portò alla coscienza.
In Mesopotamia si registrò in primo luogo una confusione sull’autorità che diede origine alla ribellione in senso moderno; parallelamente dovettero nascere anche angeli e demoni, insieme alla preghiera:

Nella mente bicamerale classica, ossia prima del suo indebolimento per opera della scrittura attorno al 2500 a.C., non c’era, secondo me, alcuna incertezza nelle voci allucinatorie e nessuna occasione quindi per la preghiera. (p. 278)

Nacquero i presagi e le divinazioni (distinte in augurali e spontanee) e il tempo venne spazializzandosi. Come spiegato prima, nacque la coscienza.
Nella Grecia arcaica Jaynes, per mezzo dei termini usati nei poemi omerici (già in parte considerati), rinviene dei passaggi graduali che portarono alla coscienza:

I. Fase oggettiva. Si situa nell’epoca bicamerale, nella quale questi termini si riferiscono a semplici osservazioni esterne.
II. Fase interna. I termini sono passati a significare cose interne al corpo, in particolare certe sensazioni interne.
III. Fase soggettiva. I termini si riferiscono a processi che chiameremmo mentali; essi designano ora non più stimoli interni ritenuti cause di azioni ma spazi interni in cui possono verificarsi azioni metaforiche.
IV. Fase sintetica. Le varie ipostasi si uniscono in un sé cosciente capace di introspezione. (pp. 312-313)

Addirittura si registra un indebolimento dal primo al secondo dei poemi omerici:

Gli dèi bicamerali dell’Iliade, passando nell’Odissea, sono diventati deboli, si tengono sulla difensiva. Si travestono di più e indulgono persino all’uso di bacchette magiche. (p. 328)

Analizzate poi le menti dei personaggi di Esiodo, di Perse e Solone, e fornito delle mirabili letture del mondo antico che qui non è possibile nemmeno accennare, Jaynes conclude l’analisi dell’emergenza della coscienza in Grecia come segue.

La mente soggettiva cosciente greca, a prescindere dalla sua pseudostruttura dell’anima, è nata dal canto e dalla poesia. Di qui essa procede entrando nella sua propria storia, nelle introspezioni narratizzanti di Socrate e nelle classificazioni e analisi spazializzate di Aristotele, e di qui ancora nel pensiero ebraico, alessandrino e romano. E poi nella storia di un mondo che, per causa sua, non sarà mai più lo stesso. (pp. 349-350)

Difatti terzo e ultimo popolo preso in considerazione è proprio quello ebraico (originariamente i khabiru). Ecco che per l’autore l’Antico Testamento non è altro che la descrizione di questo passaggio graduale – attraverso i vari libri che lo compongono, dal più antico al meno – dalla bicameralità alla coscienza. Nei primi Dio è onnipresente e termini come «mentire», «pensare», «sentire», «capire» o simili non compaiono; mentre negli ultimi Dio è menzionato raramente e al contrario cominciano ad essere usate quelle espressioni. Citando l’Ecclesiaste, Jaynes dice:

E chi, se non un uomo molto soggettivo, avrebbe potuto dire: «Vanità delle vanità, tutto è vanità» (1, 2), o asserire di aver visto che la sapienza va assai oltre la stoltezza (2, 13)? Per vedere in tal modo si deve avere un analogo «io» che scruta in uno spazio mentale. E il famoso terzo capitolo, «Per ogni cosa v’è il suo tempo, v’è il momento per ogni proposito sotto il cielo», è precisamente la spazializzazione del tempo, il suo dispiegarsi nello spazio mentale, così tipico della coscienza. (p. 355)

La religione è dunque un sentimento di «forte nostalgia per la perduta bicameralità in un popolo soggettivamente cosciente» (p. 356). Inutile citare il mito del Genesi. Ecco piuttosto la nostalgia dei Salmi (42, 1-2) che Jaynes cita a conclusione di questo secondo intenso libro:

Come il cervo agogna i rivi d’acqua,
così l’anima mia agogna voi, o dèi!
L’anima mia ha sete di dèi! di dèi viventi!
Quando verrò faccia a faccia con gli dèi? (p. 374)

Il Libro terzo titola “Vestigia della mente bicamerale nel mondo moderno”. Si parla infatti di oracoli (quello di Delfi è discusso ampiamente, con vari riferimenti al capolavoro di Dodds, I Greci e l’irrazionale), profeti, possessioni, ipnosi, schizofrenia e tutti i fenomeni connessi a stati di trance simili alla mente bicamerale arcaica. Sugli oracoli, Jaynes ricorda anche che

Attraverso la sua ultima sacerdotessa, Apollo profetizzò che non avrebbe profetizzato mai più. E questa profezia si avverò. La mente bicamerale era giunta a una delle sue molte fini. (p. 393)

E il dio cambiò per sempre: «Dopo il crollo della mente bicamerale ogni dio è un dio geloso» (p. 399).
Ho tralasciato il fatto che Jaynes è alquanto scontroso con le autorità religiose e in particolare con i preti. Tuttavia con molta imparzialità da studioso affronta certe vestigia bicamerali nella moderna religiosità cristiana:

Miti idoli di Gesù, di Maria e dei santi in gran parte del mondo cattolico vengono ancora lavati, vestiti, incensati, ornati con fiori, ingioiellati e portati fuori a spalla dalle chiese scampananti in un tripudio di folla, in processione attraverso città e campagne nei giorni di festa. L’uso di offrire loro cibi speciali o di danzare o inchinarsi dinanzi a loro genera ancora una sua esaltazione numinosa. Tali forma di devozione differiscono da processioni simili nella Mesopotamia bicamerale di 4000 anni fa soprattutto per il relativo silenzio degli idoli di oggi. (p. 401)

Viene dettagliatamente spiegato come i profeti venissero lungamente e duramente istruiti a lateralizzare le proprie capacità mentali – dunque divinatorie. Le possessioni avevano una loro precisa metodologia e comprendevano riti sacri – metodi e condizioni neurologiche oggi difficilmente praticabili.
Il paradigma bicamerale – come viene ora chiamato – presenta infatti diversi livelli: l’«imperativo cognitivo collettivo», l’induzione, la trance, l’autorizzazione arcaica. Livelli che vengono discussi e spiegati ampiamente e che solo in parte sono ancor oggi praticati.
Avviandosi alla parte finale dell’intero volume e dopo aver discusso della poesia e della musica come arti nate per esprimere la parola divina, Jaynes si concentra sulla schizofrenia. Assunto fondamentale è il seguente: la coscienza è «una capacità culturale appresa, innestata sul sostrato vestigiale di un tipo precedente e più autoritario di controllo del comportamento» (p. 450), e non un’evoluzione genetica delle strutture cerebrali. Tesi radicale quanto affascinante. Quindi per mezzo dell’ipnosi – che consente un controllo del comportamento più assoluto rispetto che non in una fase cosciente del soggetto – è possibile oggi vedere come poteva presentarsi la mente dell’uomo bicamerale. Disposto ad obbedire alle proprie voci. Lo schizofrenico rappresenta perciò con brillante esattezza questa condizione arcaica. Come può essere detto per il termine «follia», anche «paranoia» mostra questo parallelismo,

paranoia, (…) derivando da para + nous, significa letteralmente «avere un’altra mente accanto alla propria», espressione che descrive tanto lo stato allucinatorio della schizofrenia quanto quella che abbiamo descritto come mente bicamerale. (p. 482)

A parte le dettagliate analisi neurologiche e psichiatriche che l’autore conduce per diverse pagine sulla patologia schizofrenica, quel che conta riportare è, probabilmente, quanto segue.

Non è insolito udire pazienti che, in certe fasi della loro malattia, si lagnano che le voci esprimano i loro pensieri prima ancora che essi stessi abbiano avuto la possibilità di pensarli. (…). Alcuni pazienti dicono che non gli viene mai dato modo di pensare da sé; c’è sempre qualcuno che pensa per loro e che loro i pensieri. (p. 490)

Affrontati diversi aspetti che accomunano schizofrenici e bicamerali, in realtà – dice Jaynes – quella dello schizofrenico «è una mente che si offre nuda al suo ambiente, in attesa di dèi in un mondo che ne è privo» (p. 513).
Viene sottolineato anche il punto di vista contemporaneo su questi stati mentali: cioè di coloro che sono perfettamente coscienti. Non è una visione del tutto rosea, condivisibilmente.

Quanto al resto di noi, che dobbiamo barcamenarci con modelli coscienti e con un’etica scettica, dobbiamo accettare il nostro diminuito controllo. Siamo dotti nell’esitazione, studiosi dei nostri insuccessi, genii della giustificazione e del rimandare a domani le nostre decisioni. Diventiamo così esperti nelle risoluzioni impotenti, finché la speranza si dissolve e muore nell’intentato. Tutto questo accade ad almeno alcuni di noi. E se vogliamo poi sollevarci al di sopra di questo rumore di conoscenze e se vogliamo trasformare realmente noi stessi, abbiamo bisogno di un’autorizzazione che «noi» non possediamo. (p. 478)

Quel che viene detto nell’ultimo capitolo di questo terzo libro (titolato “Gli auspici della scienza”, cui segue un “Post scriptum” del 1990 in cui l’autore appone lunghi approfondimenti ed aggiornamenti interessanti ma non rilevanti in questa sede) spalanca porte verso il non dicibile. Va considerato un libro a sé. Dunque non posso che riportarne alcuni – non certo gli essenziali – passaggi, che non credo utile ad alcunché commentare, tanto sono profondi.

Noi talvolta pensiamo, e ci piace pensare, che le due imprese più grandi che hanno influito sull’umanità, la religione e la scienza, sono sempre state avversarie storiche e ci attirano in opposte direzioni. Ma questo sforzo alla ricerca di una speciale identità è clamorosamente erroneo. Non la religione e la scienza, ma la Chiesa e la scienza furono ostili l’una all’altra. E fu rivalità non conflitto. Tanto la Chiesa quanto la scienza furono religiose; erano due giganti che si combattevano l’un l’altro muovendosi però sullo stesso terreno. Entrambe proclamavano di essere l’unica via che porta alla rivelazione divina. (…).
La vera divisione era più profonda e può essere compresa, secondo me, solo nell’ambito della forte aspirazione dell’uomo verso certezze divine. (p. 516)

Ciò che abbiamo vissuto in questi quattro millenni è la lenta, inesorabile profanazione della nostra specie. E nell’ultima parte del II millennio d.C. Questo processo sta a quanto pare completandosi. È la grande ironia umana della nostra impresa più nobile e più elevata che nella ricerca dell’autorizzazione, nella nostra lettura del linguaggio di Dio nella Natura, leggiamo così chiaramente che a tal punto ci siamo sbagliati. (pp. 518-519)

La scienza, quindi, nonostante tutta la sua pompa di fattualità, non è diversa da alcune fra le più disprezzate pseudoreligioni epidemiche. (p. 526

[Il mio obiettivo era capire] il problema della natura e dell’origine di tutto questo paesaggio invisibile di ricordi impalpabili e di fantasticherie che nessuno può mostrare, questo introcosmo che è più me di ciò che io posso trovare in uno specchio. (…). Quel che era allora un auspicio per dirigere l’azione fra le rovine di una mentalità arcaica è oggi la ricerca di un’innocenza di certezza fra le mitologie dei fatti. (p. 529)

Resta da chiarire un importante aspetto: Jaynes è nostalgico nei confronti del periodo bicamerale oppure accoglie il sorgere della coscienza come un inevitabile progresso dell’umanità?
Credo che dalla lettura emerga una sorta di nostalgia, ma essa non è mai confermata esplicitamente dall’autore. Questo aspetto rende il libro ancor più affascinante. Certo, il giudizio – che non ho riportato se non per stralci – sulla scienza moderna è devastante: essa avrebbe allontanato il sacro. Quanto oggi affermato da Umberto Galimberti (ma di questo altrove). Ad ogni modo, quella di Jaynes è una ricostruzione tanto storica quanto terapeutica: egli intende dire come si trovava ad essere l’uomo omerico (fino alle soglie del VIII sec. a.C.) da un punto di vista storico e poi occuparsi della schizofrenia oggi, cercando di coglierne nuovi aspetti e proporne una nuova interpretazione alla luce della lettura storica. Forse meglio dire preistorica, dacché proprio la scrittura (crinale tra storia e preistoria) avrebbe spezzato l’incantesimo.