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Elogio della povertà

L’imponente, giacché lo è per definizione, potere ha sempre la capacità di camuffarsi ed addirittura far percepire ciò di cui si serve come se fosse la sua stessa essenza. Cosicché la forma del potere, rimanendo sempre identica a se stessa, cangia materia; eppure non viene quasi mai smaterializzato, dimodocché appare sempre connotato ed individuato materialmente. Il potere è, con buona pace di tutti, sempre dominio di pensieri1. Ed ogni materialismo è fallace giacché inetto a smascherare la materialità di cui si ammanta il potere. Il potere attuale si dà come potenza; e la potenza si manifesta nella riduzione di ogni discorso politico (ossia di potere) a mera economia. Fuoriuscire dall’ottica economica significa smaterializzare il potere per smascherarne la forma. Chi indica il male additando i soldi è nel gioco del potere; ovviamente chi, in questo gioco, ha meno soldi è schiavo; chi ha più soldi è padrone. Ma chi rigetta la ricchezza, il desiderio del danaro, chi rinuncia alla potenza pecuniaria, scardina i giochi, smaschera il potere che poi in fondo, lo si sa, va sempre «vestito d’umana sembianza»2.
Il discorso intorno alla Sostanza è una dialettica esclusiva delle sostanze. Quando viene pensata, la Sostanza esclude il duplicarsi o, meglio e più in generale, il moltiplicarsi delle sostanze. È un principio non di economia, ma di povertà. Pensare la natura come una Sostanza, come unica nostra risorsa che ci fa tutti poveri, è accedere alla sacralità del ritorno a cosa tra cose; ciò che ci rende altro dalla Cosa, in barba al materialismo, è l’economia; il principio economico che mira al soddisfacimento del bisogno, che ha il bisogno come principio e meta ed alla qualità fa subentrare il concetto matematico di eguaglianza non tiene conto del fatto che il bisogno stesso è scavalcato dalla vita. La vita non può essere senza ciò di cui ha bisogno; quando manca ciò di cui ha bisogno, essa cessa. La vita è costantemente un bisogno appagato e con ciò oltre il bisogno; la vita è l’al di là del bisogno. Quest’ultimo, invece, è la tensione verso la morte, ciò attraverso cui la morte ci avverte della sua presenza. Il potere materializzato in economia è il predominio dell’incolmabilità della morte sull’appagamento della vita. Non a caso, la povertà è prerogativa di qualche santo, giacché «il contrassegno dei grandi santi, e ve ne sono ben pochi, sta nel cogliere il centro dei problemi. Le cose più semplici sono invisibili, perché celate dentro l’uomo; nulla di più arduo che far comprendere ciò ch’è ovvio. Se viene scoperto o ritrovato, scatena energie esplosive. Antonio ha ravvisato la potenza del solitario, Francesco quella del povero, Stirner quella dell’Unico. “In fondo”, ognuno è solitario, povero e unico, nel mondo»3.
Del resto, la tensione verso la morte, tensione di cui è portatrice malata l’economia, è ben mostrata da questo intenso dialogo in Romeo e Giulietta. Romeo vuole morire ed a tale scopo desidera acquistare un veleno da un povero speziale.

Romeo:
Sei tu così nudo e colmo di miseria
e paventi di morire? La fame è sui tuoi zigomi,
il bisogno e l’oppressione agonizzano nei tuoi occhi,
il disprezzo e la miseria pendono sulle tue spalle;
il mondo non è tuo amico, né la legge del mondo;
il mondo non ha legge per farti ricco;
allora non restare povero, ma spezzala e prendi questo [i 40 ducati]

Speziale:
La mia povertà, ma non la mia volontà acconsente.

Romeo:
Pago la tua povertà e non la tua volontà.
[…]
Prendi questo oro – il peggior veleno per le anime degli uomini,
compie più omicidi in questo odioso mondo
che queste povere misture che tu non potresti vendere.
Sono io a venderti il veleno; tu non me lo hai venduto.4

L’inganno del bisogno vince nuovamente: colui che non temeva finanche la morte, il povero, è corrotto dal bisogno che la lusinga del denaro gli fa credere materiale. Ovviamente Romeo conclude che è lui a vendere il veleno e non viceversa. Ma non è tutto. Il ricco ed il mendicante hanno anche un tratto che li accomuna, ossia la libertà di godere dello spazio, sebbene il primo, come fa con ogni cosa, acquisti questa libertà. Una magnifica descrizione del peregrinare del povero ci è offerta da questo passo:

Un ricco e un mendicante hanno, rispetto agli altri comuni mortali, il vantaggio di poter dare libero corso alla loro voglia di viaggiare. Il ricco si schiude le magnificenze della terra con la chiave d’oro in suo possesso; il povero ha un lasciapassare per l’intera natura e può abitare a suo piacimento le dimore più belle e sublimi: oggi l’Etna, domani la grotta di Fingal; questa settimana la residenza estiva del saggio sul lago di Ginevra, e la successiva la preziosa sala di cristallo della cascata del Reno, dove, al posto del soffitto affrescato, il sole tesse gli arcobaleni sopra il capo e la natura, nel suo incessante distruggere, gli ricostruisce ogni volta un palazzo.
Mostratemi un re che possa abitare più splendidamente di un mendicante!
Oltre a ciò, viaggiavo con il vantaggio di non essere sollecitato da nessuno a pagare il conto e senza dover ringraziare alcuno per i miei pasti notturni, se non l’antica Madre stessa; poiché la terra recava nel suo grembo ancora radici che non mi negava, e offriva alle labbra assetate, nella coppa di roccia che le porgevo, la fresca bevanda spumeggiante della cascata. Mi sentivo veramente felice e libero, e odiavo gli uomini a mio piacimento, perché strisciavano così piccoli e inutili per il grande tempio del sole.6

Il povero è in un rapporto di figliolanza con la natura; egli non ha bisogno di chiavi d’oro per esercitare un presunto potere sullo spazio, perché non ha poteri da esercitare. Egli non vive fuori dal mondo, non è né un asceta, né un anacoreta; vive confuso tra gli altri, libero di odiarli (e perciò anche di amarli) a piacimento; percorre lo spazio liberamente e con lo spazio è in una vicendevole dis-posizione. Il posto è fisso perché materiale; la dis-posizione è libera perché dis-occupata e dis-occupante. Non a caso il dis-occupato è colui che non ha un posto. In quest’ottica, il lavoro è l’impostura economica, nel senso che esso è imposto. La libertà della povertà è, dunque, dis-occupazione (intesa come affrancamento) dal lavoro, giacché questo, con l’impostura imponente del soddisfacimento dei bisogni, è il lungo lavorio che esercita il potere. Sottrarsi al lavorio che il bisogno impone sui corpi, al disfacimento che la tensione verso i bisogni impone, sottrarsi, in definitiva, alla maschera economica sotto cui si cela il potere, è sottrarsi al timore della morte.
E con ciò, la povertà è indefinitamente sottratta allo stesso imponente potere della morte.

Note
1. «Gerarchia è dominio dei pensieri, dominio dello spirito! Gerarchici, noi lo siamo ancora oggi, oppressi da coloro che si appoggiano sui pensieri. I pensieri sono il sacro»; M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 1995, pag. 82.
2. F. De Andrè, Via della croce, in F. De Andrè, Tutte le canzoni, Mondadori, Milano 2006, pag. 120.
3. E. Jünger, Eumeswil, Guanda, Parma 2001, pag. 310.
4. W. Shakespeare, Romeo and Juliet, V, I, vv. 68-83.
5. Si badi bene: qui si esula dalla ben altra volontà di potenza.
6. Bonaventura, Veglie, in G. Bevilacqua (a cura di), I romantici tedeschi. Narrativa, vol. I, Bur, Milano 2003, pag. 602.