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Catarsi addosso

Per la presentazione di R. Caracci, Le maschere del senso. Come inganniamo il tempo, la morte, lo stupore di esistere, Moretti&Vitali, Bergamo 2015 — Casa della Cultura, Milano, 15 maggio 2016.

Politica, sesso, religione e morte: non avrei potuto desiderare libro migliore per la mia prima milanese. Mi sento in pressoché totale consonanza con il libro di Roberto, sia per i temi trattati che per lo stile con cui li tratta. Ma questo sarebbe ben poca cosa, perché legare la validità di un libro a un’adesione soggettiva, tra l’altro di un soggetto di così poco conto quale sono io, sarebbe appiattire uno scritto a un consenso del tutto individuale. Sarebbe fare torto alla scrittura, che almeno quando è buona – come nel nostro caso – travalica la totalità dei soggetti possibili, per farsi soggetto essa stessa.
Dal punto di vista personale, posso azzardare un rapporto più intimo con l’autore. Dopo i nostri primi incontri, posso spingermi oltre i convenevoli. È già tanto avere atteso quattro appuntamenti prima di lasciarmi alle spalle i preliminari per andare dritto al sodo. Roberto, prendi le mie parole come delle avances che ti faccio, forte della mia blandizie femminina.
Politica, sesso, religione e morte, dicevo. Perché il discorso sul senso (ma a proposito di questo libro sarebbe meglio dire sul costante e perenne tentativo di appioppare un senso qualunque a questa nostra vita insensata) investe questi campi che poi, in fondo, possiamo ricondurre all’ambito unico di cui si è occupata da sempre la filosofia. Ecco allora svelata l’essenza di quella consonanza che ho avvertito leggendo queste pagine. Non è un mistero, Roberto lo dice sin da subito, nella prefazione: «Ciò che Heidegger diceva dei filosofi, che hanno sempre pensato lo Stesso, lo si può applicare alle fasi della vita di ciascun individuo, la cui ghianda non muta nei suoi semi fondamentali se non nel linguaggio per dirli e lasciarli germogliare» (pag. 12). L’ha detto con mirabili parole un negletto filosofo francese, Brice Parain, quando in un’intervista affermò: «I filosofi hanno ripetuto sempre la stessa cosa. La filosofia è il sogno della pace. Lo stesso in Eraclito, Platone o Tommaso d’Aquino. È una questione eterna, perché l’uomo non cambia mai — è il vocabolario a cambiare. In fondo i filosofi si contraddicono raramente, ma quel gioco al massacro che è il concorso a cattedra vuole che li si faccia distruggere a vicenda! La filosofia comincia una volta abbandonati questi esercizi puerili». All’insegna di questo Stesso, il libro di cui discutiamo oggi è uno di quelli il cui frontespizio potrebbe recare: hic philosophamur. Tanto spesso, tenendo conto di libri come questo – i soli che vorrei aver letto, in mezzo a tante sciocchezze – alla domanda fatidica e un po’ scema: “Quanti libri hai letto?”, mi viene da rispondere: “Solo uno, ma centinaia di volte”.
Politica, sesso, religione e morte: i temi filosofici, ossia i temi satirici per eccellenza. Nietzsche diceva che avrebbe potuto credere solo a un dio che sapesse danzare. Io, molto più modestamente, credo solo ai filosofi che sanno scherzare. Ogni buon filosofo scrive libri satirici. Penso per esempio alla Fenomenologia dello spirito del capocomico Hegel, un’incredibile satira di tutte le escrescenze figurative dello spirito, il quale solo alla fine dei tempi si volgerà a guardare ciò che ha vissuto – appunto tra politica, sesso, religione e morte – e lo andrà ripercorrendo per rendersi conto di ciò che ha combinato. Allo stesso modo, spesso mi capita la domenica mattina, svaniti i fumi dell’alcol, di ripassare a mente le figuracce in cui si è incarnato il mio spirito alcolico. Credo che così dovette sentirti anche il dio biblico la mattina del settimo giorno.
Prendiamo un esempio all’uopo da questo scritto satirico di Roberto: «Per pienezza del senso, intendo il riempimento della durata e del vissuto temporale in direzione di uno scopo, di una meta e ovviamente di un senso. Per catarsi dal senso, intendo il suo opposto, lo svuotamento dall’impegno del senso, la liberazione del vuoto» (pag. 152). La tecnica satirica consiste nello spostare metaforicamente il significato delle parole con l’intenzione di creare un corto circuito che oltre alla risata produce una riflessione. Il piano ci slitta di sotto i piedi: capitomboliamo, ma poi ci chiediamo com’è che siamo caduti. Il momento dello scherzo si ha quando la pienezza di senso viene metaforicamente assimilata al nutrirci o all’eccitazione sessuale, mentre la catarsi dal senso è assomigliata all’evacuazione digestiva o sessuale. Del resto, come Roberto dirà qualche pagina dopo, il senso è anche una questione di pori, o di orifizi, in questo caso. Come dire: sesso e senso si toccano, in maniera alquanto masturbatoria.
È curioso come i temi della politica, della religione e della morte vengano affrontati di petto ed esplicitamente da Roberto, mentre il sesso venga solo accennato, lasciato intendere, inserito tra le righe. Si parla molto dell’amore e del figliare, ma mi pare manchi una trattazione esplicita del sesso come fonte di senso, o anche viceversa. Vi è un che di pudico nello stile di Roberto. L’accenno più esplicito è il seguente, volto a chiarire anche la precedente citazione: «Il metabolismo digestivo e la stessa vita biologica potrebbero costituire una metafora – sia pur rozza – di ciò che teleologicamente intendo per pienezza-del-senso e catarsi-dal-senso. Vi è nell’uomo un piacere del riempirsi come dello svuotarsi, della oralità come dell’analità, dell’acquisizione come della liberazione. Anche l’eros può essere letto freudianamente come una pienezza che si svuota: l’eccitazione riempie, l’eiaculazione svuota» (pag. 155).
In realtà, credo si possa leggere l’intero libro di Roberto come una satira sul tragicomico affaccendarsi umano intorno alle cosacce sessuali. Il passaggio dal tragico al tragicomico è presto detto: «Essere all’altezza dell’instabilità, come già sapevano i Greci, è il tragico. Nella volontà di esorcizzare l’instabilità con la stabilità della logica, della metafisica, della religione, ma anche con il teatro delle passioni umane, il tragico partorisce il tragi-comico» (pag. 150). In questo passaggio dal tragico al tragicomico, la domanda sul senso diviene una domanda sul sesso. In fondo, solo chi ha un’incrollabile certezza sul senso della vita o chi non se pone il problema dovrebbe continuare a intrecciare costole e generare nuovi mendicanti di senso. L’aspetto scherzoso della faccenda è buttarla sul sesso, questo gioco da ragazzi di cui più o meno tutti subiamo le conseguenze e portiamo i segni, almeno si spera. La riflessione subentra quando al di là del senso e del sesso individuale, ci si comincia a chiedere del senso e del sesso dell’umanità o anche della vita intera in generale. La domanda sul futuro è da inquadrare in questi termini, che di necessità travalicano l’individuo: “Che senso ha che la vita continui, in generale?”. Roberto è molto chiaro in proposito: «È proprio questo che in fondo – in qualche parte del nostro mondo interiore – vogliamo: il racconto del futuro» (pag. 114).
Ogni impalcatura politica e religiosa è un tentativo di risposta a questo pressante interrogativo circa il futuro, all’esigenza di una narrazione volta a rassicurarci del fatto che almeno in futuro la vita possa risolversi in qualcosa di sensato. Le maschere del senso, declinate politicamente e religiosamente, si mutano in macchine del senso. La politica e la religione sono le grandi narratrici del futuro. E quanto più lo narrano, lo costruiscono, lo inventano, tanto più diventano opprimenti, soffocanti, totalitarie. La narrazione cristiana inscrive l’essere umano in una cornice di senso dal futuro assicurato: la seconda venuta, il Giudizio finale: che si stia buoni, viviamo in un tempo di attesa, anzi proprio l’attesa è il senso stesso. Nel frattempo, andate e moltiplicatevi.
Tuttavia, la più terribile fabbrica di senso è da rintracciarsi con tutta evidenza nel nazismo. Il totalitarismo, infatti, non è che il tentativo capillare e violento di instillare un senso unico e univoco in ogni singolo aspetto di ogni singola esistenza. Da questo punto di vista, il nazismo è quanto di più sensato prodotto dall’umanità. Per questo il tanto insistere del nazismo sul futuro; da questo l’incentivo nazista di generare quanti più figli possibile, da dare in pasto a un mondo crudelmente ovattato di senso. In quest’ottica assume una luce diversa il famigerato motto spesso attribuito a Goebbles ma pronunciato da von Schirach: «Quando sento la parola cultura, metto mano alla pistola».
A tal proposito, due considerazioni: la prima è che l’uomo che riflette – il filosofo – quando sente la parola senso mette mano al pistolino. Non che la cosa lo ecciti particolarmente, ma con la scusa di un gesto apotropaico contro la malasorte nazista, mettendo mano al pistolino il filosofo sfoga almeno temporaneamente la smania sensata di riprodursi.
La seconda è che i nazisti potevano tagliare corto, essere onesti pressappoco come gli inquisitori: la mano alla pistola (o la legna per il rogo) la mettevano contro l’uomo che riflette, non contro una generica e presunta cultura. Il nemico della stabilità sensata del nazismo è l’insensatezza instabile del filosofo. La filosofia è mantenere l’incertezza per il futuro, è sostare nell’instabilità. È riconoscere la totale assenza di senso, che sia dato o non dato a priori o a posteriori. Ma non si scomodino i nazisti e gli inquisitori di ieri e di oggi: il filosofo, in campo sessuale come in quello esistenziale, gode a fare da sé. L’aspirazione di ogni filosofo non può che essere il suicidio, nel senso specifico di prendere consapevolezza che in fin dei conti egli non muore che di sé stesso, persino quando una mano armata gli raccorcia tempi e distanze, strumento inconsapevole e perciò portatore di una verità tanto più assurda e terribile. Nel lungo stillicidio delle parole scritte, il filosofo mette tutto sé stesso, anche armando e amando la mano che lo annienterà. È un lento, lentissimo suicidio, quello della riflessione filosofica: da una parte il mondo, dall’altra una pallottola. Nel mezzo una testa pensante.
Torno brevemente al libro, prima delle mie conclusioni che non concludono, per citare ancora Roberto. Una possibile conclusione inconcludente de Le maschere del senso cita la narrazione proustiana, che fa capolino tra le ultime pagine. L’intolleranza di Proust alla mancanza di senso si risolve tutta nella narrazione che è tutt’uno con il senso dell’opera. Come lo spirito satirico di Hegel ricomincia ogni volta dall’infanzia della coscienza, così il tragicomico Marcel, compiuta la propria vita, ricomincia mettendola per iscritto. Sono due ripercorrimenti, due narrazioni che instaurano un circolo vizioso del senso: il narrato ha senso solo nella narrazione, se non fosse narrato non avrebbe senso; ma allora non esisterebbe in quanto narrato. Dunque ha senso solo la narrazione, ma senza narrato non sarebbe tale. Come secondo Heidegger nel circolo ermeneutico, anche nel circolo narrativo che conferisce senso bisogna starci nella maniera giusta. La scrittura, o più in generale la narrazione, ha come presupposto un precursore oscuro che le conferisce senso: l’atto di congiunzione che fa esistere simultaneamente narrazione e narrato. Il fatto che il precursore oscuro non possa essere conosciuto o quantomeno reso esplicito o oggetto esso stesso di riflessione inscrive il senso della narrazione in una sostanziale impossibilità di conoscere il contenuto di questo senso. Che qualcosa come un senso possa esistere è l’unica cosa che possiamo immaginare. Nel solco di questa immaginazione produttiva, il filosofo, il narratore, l’artista tracciano la loro rotta circolare, inconcludente, insensata. Nell’atto della scrittura si risolve il senso dell’esistenza di chi scrive. O almeno così mi piace immaginare.

Ecco qualche conclusione insensata e inconcludente, satirica dal primo all’ultimo punto:

  • Il filosofo gode e scherza di tutta la realtà. Il filosofo è affetto da satiriasi.
  • Lo svuotamento è una catarsi dal senso.
  • Esistere – essere fuori – è una continua catarsi.
  • La morte, questo svuotamento esistenziale, questo rilassamento spirituale e biologico degli sfinteri.
  • La morte è ciò che fa catarsi addosso.
  • L’uomo che riflette ripiega su di sé.
  • L’onaninsta è un uomo che riflette su sé stesso.
  • Il filosofo arma la mano che lo uccide. Ogni morte filosofica, direttamente o indirettamente, è un suicidio.
  • Spararsi è intromettersi tra una pallottola e il mondo.
  • Il lento suicidio del filosofo è un monito di pace.
  • Il filosofo si frappone tra la pallottola e il mondo, come un corpo pensante che con insensata levità si offre in olocausto per la pace.