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Quattro gocce di santità

Per la presentazione di M. Sciotto, Un Carmelo Bene di meno. Discritture di «Nostra Signora dei Turchi» (Villaggio Maori Edizioni, Catania 2014) ― Libreria «Vicolo Stretto», Catania, 28 novembre 2014.

La cosa migliore che si possa dire di un libro è che quando se ne parla tutto ciò che si dice è contenuto in quel libro. Questo posso dirlo del libro di Marco Sciotto. Quindi tutto ciò che dirò, anche quando sembrerà ch’io stia divagando, è contenuto in qualche modo nel libro di cui ci stiamo occupando stasera. Vediamo in che modo e in che termini.

Debbo cominciare concedendovi un lusso: il lusso della noia. Ve lo concedo.
Perché, come vedete, per lo più leggerò, quindi probabilmente vi annoierò. Ma tenterò di fare ciò che è, o che dovrebbe essere la scrittura, intesa come qualcosa di classico, ossia tenterò di increspare questo mare calmo della noia. Il rischio è che ve ne venga a male, ossia che agitandovi troppo vi induca a soffrire il mal di mare. Rigettatemi pure. Ma se avrò increspato la noia di starmi ad ascoltare, ciò sarà sufficiente al mio intento classico.
Dico “classico” in due sensi: il primo è che ho scritto quasi tutto ciò che devo dire. Il parlare a braccio è quasi un’improvvisazione, e io devo dire che sono poco avvezzo al jazz; fingo che non mi piaccia abborracciare, fingo di avere una formazione e un’intenzione più classicheggianti. Il classico è anche questo: qualcosa a cui si ricorre quando ci si annoia di tutto il resto. E Carmelo Bene, che è il nostro tema di stasera, è un classico.
Il secondo senso è più rassicurante: ciò che stiamo facendo è la cosa più classica. C’è uno che legge e qualcuno che ascolta: una delle prime cose che ci è capitata da bambini, assieme alle sberle. Novalis diceva: «Tutto è fiaba». Stasera vi leggerò la mia. Ma c’è anche un’altra cosa che ci riporta all’infanzia. La filosofia ha che fare con l’infanzia per tanti motivi, per esempio perché si pone sempre domande; un altro di questi motivi è il godere dei giochetti, dei giochi di parola, della semplificazione estrema del complesso. Il che è una cosa a sua volta molto complicata. Cercherò dunque d’essere come un fanciullo che giuoca con cose difficili e le riporta a misura di bambino, nella sua dimensione specifica, ossia nell’ambito del godimento.

Ma aggiungo un terzo senso del classico: un classico è un autore (uso la parola in senso neutro, indicando semplicemente qualcuno che ha la ventura di comporre una qualsiasi opera) in cui ci sono tutti gli altri autori. Io mi interesso solo dei classici e, come abbiamo detto, Carmelo Bene è un classico. Ho parlato di “autore” in una serata dedicata a Carmelo Bene e un po’ me ne vergogno. Allora aggiusto il tiro e parlo di libri: un classico è un libro in cui ci sono tutti gli altri libri. Ma allora, potrebbe obiettare qualcuno, i classici parlano tutti della stessa cosa! Obiezione accolta; anzi me ne faccio carico: i classici sono libri che parlano tutti della stessa cosa. Non dico di cosa, ci vorrebbe tempo e ci porterebbe lontano. Ma dico che ne parlano in maniera diversa. Mettiamo, come quando si parla di qualcuno senza che questi sia presente e, quindi, se ne può dire solo male. Mettiamo, come se qualcuno di me dicesse che sono un ubriacone con la barba alla capitano Acab, o un buffone messo qui per caso che non sa nemmanco quello che dice, o – bontà sua che me lo dice alla spalle – che sono un grande genio filosofico.
Un classico, perciò, è un tale a cui capita di comporre un’opera in cui ci sono tutte le altre sue opere. Così è per Carmelo Bene. Non si può considerare una sua opera – teatrale, letteraria, filosofica, cinematografica, televisiva – senza che vi si trovi tutto Carmelo Bene.
E un buon libro su Carmelo Bene è un libro che analizzando una sua opera riesce a renderci tutto Carmelo Bene. Il libro di Marco è un libro del genere, quindi a tutti gli effetti un libro ben riuscito. Parla delle rielaborazioni successive di Nostra Signora dei Turchi, ma in questo modo ci rende tutta l’intiera fuggevolezza di Carmelo Bene; un fuggevolezza, detto per inciso, dovuta all’eterno ritorno del divenire. Per questo io posso parlare con estrema libertà di Bene: ogni aspetto che affronto lo si può trovare in questo libro. Ai miei occhi è un grande merito. Per questo stasera non farò un intervento critico: trovare un libro a cui non posso appuntare nessuna critica per me è un evento straordinario. Lo sa bene chi mi conosce: io non sono uno che le manda a dire.

Cominciamo da qui, da due passi del libro di Marco:

A un certo punto si dice che Carmelo Bene, all’incirca ventenne, va a Roma per «assecondare il desiderio di ‘fare teatro’ per poi scoprire, già pochi anni dopo, una vera vocazione nel dis-farlo totalmente. Ma disfare il teatro, il teatro come spettacolo e come rappresentazione, non sarà il suo unico intento: ad esso si accompagnerà costantemente, e con una caparbietà e una radicalità che forse mai si erano viste fino ad allora in Italia, quello di disfare la “cultura” tout court».

Questo è il primo punto da tenere a mente: disfare il teatro per disfare la cultura tout court. Il secondo passo così recita:

«Nostra Signora dei Turchi in romanzo è la negazione della letteratura, in teatro è la negazione dello spettacolo e in pellicola è la negazione del cinema: sulla pagina è dissoluzione della narrazione, sul palcoscenico è rifiuto – come tutto il teatro di Bene – della rappresentazione, sullo schermo è distruzione dell’immagine».

Abbiamo dunque tutta una serie di negazioni, il nostro secondo punto, che possiamo però riassumere così: negazione della rappresentazione in senso lato. Intendendo con rappresentazione sia l’aspetto conoscitivo, teoretico delle nostre facoltà (per cui io conosco un oggetto se me lo rappresento), sia la narrazione nel romanzo, l’immagine cinetica nel cinema e, ovviamente, la messa in scena teatrale.

Ribadiamo i due punti:
– disfare il teatro per disfare la cultura;
– negare la rappresentazione.

Il primo punto è da considerarsi come l’obiettivo, l’intenzione generale; il secondo è il metodo attraverso il quale si tenta di raggiungere l’obiettivo.
Vediamo come questo avvenga nello specifico riguardo al romanzo, che costituisce la base delle successive rielaborazioni e la cui analisi occupa la maggior parte del libro di Marco. Nostra Signora dei Turchi è un romanzo sul mancato raggiungimento della follia, sull’impossibilità di questo raggiungimento; anzi non si può definirlo strettamente un romanzo, perché non succede niente: ossia, dato che gli eventi avvengono quasi esclusivamente nella mente del protagonista, manca l’incontro con l’altro, che è l’unica cosa che può realmente accadere nella vita e quindi nel romanzo; e questa cosa, sembra suggerire Bene, non può accadere, almeno finché si è in vita. In Nostra Signora dei Turchi, infatti, si dice: «Andare incontro è come andare in cielo». “Andare in cielo”: ai bambini (ecco la semplificazione infantile) lo si dice per intendere la morte. L’unico evento degno di nota nella nostra esistenza è l’incontro con l’altro, e ciò in questo libro non può avvenire, come non avviene lo sprofondare nella follia: possiamo attuare una sovrapposizione tra l’incontro con l’altro e la follia. Siamo dei pazzi a voler incontrare altro da noi stessi. Forse per questo il dio della ragione, Apollo, e il Socrate platonico suo emissario invitavano soltanto a conoscere se stessi: per non farci impazzire.

La distruzione del romanzo avviene così con la sancita impossibilità di incontrare l’altro. Ma vediamo come avviene la distruzione della rappresentazione. E lo vediamo a partire da una frase quasi buttata lì per caso, all’inizio di quello che ormai non possiamo più chiamare romanzo: «E il trucco è meditazione». Cosa significa questa frase? Essa prelude a un rituale, quello dell’attore che si trucca, magari davanti allo specchio; un rituale cui si riferiscono o di cui sono parte due attributi, orsa maggiore e orsa minore. Vedremo la problematicità connessa ad essi. Il rituale cui introduce il trucco è la messa in scena teatrale. Si configura come una rappresentazione rituale, ossia una celebrazione religiosa. Così nella locuzione con cui si suole indicare la rappresentazione teatrale, la “messa in scena”, dobbiamo rilevare l’ambiguità del termine “messa”: la “messa” in scena è la rappresentazione di una messa, di una celebrazione religiosa rituale.
«Il trucco è meditazione». Ma cos’è la meditazione? Essa è un imbellettamento, è qualcosa di truccato. La meditazione è la mediazione truccata; nel senso in cui si trucca una donna per apparire più bella o un motore per farlo andare più veloce. La meditazione è la mediazione con una “t” nel mezzo; e al nostro gusto fanciullesco sembra appropriato che abbia nel mezzo questa lettera a forma di croce. La mediazione è l’inciampo che il pensiero causa all’immediatezza, la pietruzza che ne inceppa il fluido meccanismo. La meditazione è la parodia, anzi la figura imbellettata della mediazione. La mediazione introduce la complessità del pensiero nel rapporto che instauriamo con l’oggetto; la meditazione copre con lo spirito – come gli attori o le donne coprono il viso con cipria e fondotinta – la naturalezza del pensiero, per mascherarne la complessità, come col trucco si mascherano le rughe. La mediazione è filosofica; la meditazione spirituale, ossia religiosa. Dove c’è un complesso problema filosofico, lo spirito religioso – la meditazione – lo appiana con una risposta semplificata. (Un esempio banale: Dio è una risposta semplificata a tanti problemi filosofici: la creazione dell’universo, la vita, la coscienza, la sofferenza…) Un uomo che media i concetti è un filosofo. Un uomo che medita sui concetti è uno stinco di santo. L’attore protagonista di Nostra Signora dei Turchi aspira alla santità perché si trucca. Con una monelleria potremmo cambiare il titolo: Nostra Signora dei Trucchi. O forse questo è l’appellativo che daremo a ogni donna?

Come che sia, abbiamo i passaggi necessari per tradurre la frase di Carmelo Bene in termini più espliciti: il trucco è meditazione, ossia il trucco è religione. Noi che però siamo smaliziati come bambini sappiamo cosa questo voglia dire, basta invertire i termini: la religione è un trucco. Dove con il termine “trucco” possiamo intendere tutto ciò che ci viene in mente: cosmetico, inganno, gioco di prestigio, magia…
Ora, la “messa in scena” non è che la rappresentazione di questo trucco, ossia, come abbiamo già detto, una rappresentazione di una messa: ogni messa, in fondo, è un trucco per chi ci crede; svelato il trucco, non abbocca più nessuno, come con il gioco delle tre carte. Certo, il fessacchiotto che ci casca c’è sempre. Lo stesso vale per il teatro, perché siamo di fronte al medesimo tipo di celebrazione.

(Noto a margine che quanto ho appena detto basterebbe a rispondere a Roberto D’Agostino. Questi, in una serata al Maurizio Costanzo Show, a un Carmelo Bene che sosteneva di non esistere, chiese: «Se non esisti, perché ti tingi i capelli?» La domanda può essere generalizzata: perché Carmelo Bene si trucca? La risposta sarebbe proprio questa: la religione è un trucco; ovvero, il che è equivalente, il teatro, questa messa in scena, questa rappresentazione, è un trucco. Quando Carmelo Bene si trucca o si tinge i capelli, sta rendendo esplicito, visibile tutto questo.)

Andiamo ai due attributi, cui abbiamo accennato: orsa maggiore e orsa minore. Anche in questo caso c’è un trucco, perché, in quest’opera, l’orsa maggiore costituisce l’elemento fisso, mentre l’orsa minore quello variabile. La più elementare cognizione astronomica ci avverte che dovrebbe essere al contrario. Qua, invece ci troviamo di fronte a questo stato di cose:
«In certe notti poi, quando più si sentiva deciso a tutto, prima di dare inizio alle sue pratiche, estraeva da un cassetto il suo passaporto e lo disponeva al centro del tavolo, ostentatamente visibile da qualunque angolo della stanza. Nei casi estremi era questo l’oggetto più importante dell’orsa maggiore, la sicurezza degli oggetti fissi, qualcosa come la stella polare».

Ora, sappiamo tutti che la stella polare non fa parte dell’orsa maggiore, bensì dell’orsa minore. Questo spostamento del punto fisso è strettamente connesso con un oggetto che indica l’identità del soggetto, ossia il passaporto. La stella polare, che è il passaporto ovvero l’identità, è spostata e messa in movimento. Insomma, per scuotere l’essere bisogna spostare le stelle in cielo. Il divenire deleuziano (ancor prima che Deleuze ne parlasse) è già tutto in questa identità spostata e annientata, perché è una ripetizione della differenza senza concetto, ossia è la ripetizione della stella polare che si differenzia da sé stessa perdendo il concetto della fissità, dell’orientamento, dell’identità con sé medesima.
Cito ancora dal libro di Marco:

«Di fronte ad uno specchio, il protagonista senza nome di Nostra Signora dei Turchi è immerso in un rituale che lo impegna per intere ore delle sue giornate: fissare, il più immobile possibile e fino allo sfinimento, il proprio riflesso, la propria immagine sdoppiata. È uno dei tanti rituali – certamente il più importante – ai quali il protagonista è dedito costantemente, tutti comunque finalizzati alla medesima meta: la dissipazione dell’io, dell’identità, del soggetto, nel depensamento, nell’abbandono, nello svuotamento».

L’obiettivo finale, dunque, è perdersi, perdere l’identità, rincretinire per vedere la Madonna, ottenere la santità. Ma che tipo di santità? Quella degli asini, come Giuseppe da Copertino, il frate asino. Appunto, dicevamo prima, c’è chi ci casca, in questo trucco, in questa rappresentazione religiosa: Giuseppe da Copertino è un asino che vola; ma qui casca l’asino che non vola, nell’impossibilità di raggiungere con una costruzione qualcosa che dovrebbe essere immediato; di cercare di raggiungere col trucco ciò che dovrebbe essere naturale. Il nulla a cui si aspira è proprio questa impossibilità. E fino a quando si fanno sforzi per raggiungere il nulla, per capire l’impossibilità, questi sfuggono. Marco, sulla scorta di Bene, ci fornisce la chiave di accesso a questo nulla, a questa santità, ossia l’abbandono dello sforzo erotico a favore dell’assoluta nolontà del porno. A riguardo, chiosa con queste parole: «È così che i quattro secondi di santità che potevano essere ottenuti vengono raggiunti».
Sul porno mi fermo, anche se c’è chi ci si muove parecchio: sono troppo maturo, non ho ritrovato ancora la piena fanciullezza pornografica. Mi innamoro come un adolescente, mentre dovrei godere degli stimoli sessuali come un fanciullo prepubere. Prima di passare la parola a Marco, ringraziandolo ancora per avermi fatto giocare con il suo bel libro (e sembra una frase sessualmente ambigua anche questa), snocciolo qualche brevissima frase fanciullesca e conclusiva su cui mi piacerebbe sentire anche gli altri. Ho parlato come un bambino:

  • Parlare come un bambino, ossia esprimersi in termini esclusivamente pornografici.
  • I quattro secondi di santità: l’estasi, l’uscire fuori da sé. In termini fanciulleschi: l’orgasmo.
  • I quattro secondi di santità: le quattro gocce di santità.
  • Aspirare alla santità: ambire all’orgasmo.
  • La santità vuole solo sé stessa.
  • La santità gode solo di sé stessa.
  • La santità è l’impossibilità di venire incontro all’altro.
  • La santità è l’impossibilità di toccare l’altro.
  • La santità è masturbazione.
  • Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna.
  • I santi sono cretini che hanno visto la Madonna.
  • I santi pensano solo all’orgasmo, alla masturbazione e a vedere Madonne.
  • Solo un idiota può aspirare alla santità.

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