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Sull’attrazione filosofica. Una metafora

Our two souls therefore, which are one,
Though I must go, endure not yet
A breach, but an expansion,
Like gold to aery thinness beat.

If they be two, they are two so
As stiff twin compasses are two,
Thy soul the fixed foot, makes no show
To move, but doth, if th’other do.

And though it in the center sit,
Yet when the other far doth roam,
It leans, and hearkens after it,
And grows erect, as that comes home.

Such wilt thou be to mee, who must
Like th’other foot obliquely run;
Thy firmness makes my circle just,
And makes me end, where I begun.

(John Donne)

Il filosofo scalzo che per le vie della città intralcia col bastone l’incedere tranquillo dei passanti è colui, come sa Alcibiade, con o senza il quale non si può vivere. È fin troppo noto, ma mette conto citarlo perché sempre efficace e vero, ciò che il bel figliuolo di Clinia ne diceva:

E a volte mi verrebbe quasi il desiderio di non vederlo più tra i vivi; ma poi, se questo accadesse, so bene che ne avrei molto maggiore angoscia: sicché non so proprio come comportarmi con quest’uomo.1

Le regole del gioco filosofico non sono altro che leggi di attrazione; ed ovviamente, dato un termine, subito se ne trova il correlativo: la repulsione. Non si tratta di un puerile rincorrersi di pseudo-psicoligistici Eros e Tanathos. L’ironica ambiguità dell’attrazione filosofica è giocata ovviamente su un piano metafisico, cosicché la polarità attrattiva si innesca col reciproco ammiccarsi ed accanirsi di stasi e moto, di essere e divenire. Il polo attrattivo si configura come la stasi, l’essere dell’astrazione. Ciò che ruota, orbita, si muove, si comporta (o non sa come comportarsi, come il viziatello Alcibiade2) è il concreto attratto. Sicché si potrebbe affermare: ubi cogitatio, ibi attrahendi vis.
Ma com’è capace l’attrazione di respingere? Come Alcibiade può desiderare di non vedere più Socrate? Come può Socrate attrarre e respingere Alcibiade? Alle notevoli forze attrattive corrispondono spazi; lo spazio si interpone alle forze platoniche persino nelle leggi kepleriane, facendo del cardine filosofico solare il punto di volta dello spazio uguale percorso in tempi uguali: l’afelio ed il perielio: il gioco ambiguo della vis platonica del solare sommo bene. E così la repulsione non è altro che attrazione in cui fa capolino lo spazio.
E non è tutto: anche Newton non resistette alla fascinazione attraente e vide l’universo così tanto impregnato di filosofia al punto da pensare una legge di gravitazione universale basata sulla vis attrahendi. Le masse fecero capolino nell’attrazione filosofica; da lì il salto ideale alla formula eisteiniana è veramente breve: l’energia (l’atto) nasce dallo sviluppo attrattivo (e perciò filosofico) in cui la massa è inglobata fisicamente; ciò che ne rimane, quando due masse si attraggono al punto di fondersi, è in rapporto allo spazio-tempo assoluto, ossia la velocità della luce nel vuoto al quadrato, cioè in sé e per se stessa. L’energia (l’atto) è questa enorme potenza scaturita dal residuo d’attrazione moltiplicato lo spazio-tempo assoluto.
A chi obiettasse che, per esempio, la fisica quantistica è incompatibile con quella relativistica, risponderei che le vibrazioni sono sempre un principio di titillamento. La vibrazione cosmica presuppone la seduzione attrattiva di questo grande vibratore: il filosofo. Da un siffatto punto di vista, l’autoerotismo cinico di Diogene di Sinope rappresenta la massima attrazione filosofica, che è capace di attrarre proprio come fa un fenomeno da baraccone con poeti e bambini.
Con Diogene centriamo l’aspetto microcosmico della questione; egli, infatti, rappresenta il typos della repulsione filosofica, giacché essendo un “Socrate pazzo” è il pendant del Socrate-non-pazzo, esempio, quest’ultimo, che abbiamo scelto per antonomasia riguardo la questione dell’ambiguità dell’attrazione filosofica.
E tuttavia, oltrecché i vari aneddoti, specialmente quelli riguardanti Alessandro Magno, Diogene mostra la forza dell’attrazione filosofica in quanto segue. Chi solitamente concede i propri favori a pagamento, ne fa invece grazioso dono al filosofo:

Il fascino di Diogene sul suo mondo non fu questione di estetica. L’aspetto disordinato non dice molto, essendo noto peraltro che le puttane ateniesi di rango elevato riservavano a questi barbuti filosofi delle piacevolezze (gratis) che gli altri barboni potevano giusto sognarsi. Tra Diogene, Lais e Frine (due star tra le etére della capitale attica) vigevano leggi del dare e dell’avere che sfuggivano alla comprensione del normale cittadino uso a ricevere tutto solo dietro pagamento».3

D’altro canto, abbiamo già visto di striscio che l’estetica, o meglio, la pelle, la superficie non conta. Pertanto l’attrazione filosofica (che per certi aspetti potremmo definire “seduzione”) è giocata su un piano diverso; precisamente sul piano dello spirito.
Nell’ansia di possesso totale (ossia spirituale) il seduttore kierkegaardiano deve combattere la fanciulla sul campo di battaglia dello spirito:

Che cosa teme una ragazza? Lo spirito. Perché? Perché lo spirito rappresenta la negazione di tutta la sua esistenza femminile. Una bellezza maschile, un aspetto lusinghevole eccetera, sono ottimi mezzi. Con essi si può anche giungere a varie conquiste, ma non mai a una vittoria completa. Perché? Perché con essi si porta una fanciulla nel suo stesso campo, e nel proprio campo ella è sempre la più forte. Con tali mezzi si può spingere una fanciulla ad arrossire, ad abbassare gli occhi, ma mai si arriva a ingenerarle quell’ansia soffocante e indescrivibile che rende interessante la bellezza.4

Avvenuta l’installazione guerresca nel campo dello spirito, ad opera hegeliana, Kierkegaard non fa altro che volgere l’attrazione-seduzione filosofica, che comporta il totale assoggettamento esistenziale, nel campo amoroso. E cos’altro non è questo se non un redivivo gioco di attrazione e repulsione come quello dei platonici Socrate e Alcibiade? Il polo filosofico-attrattivo non si è mosso di un solo passo; è sempre nella stasi contemplativa cui orbita attorno l’incessante divenire.
La fanciulla, ahimé, sarà però abbandonata. Ella che era altiera e resisteva all’attrazione filosofica, cede ben presto le armi e si abbandona sconfitta dallo spirito.
In ciò somiglia alle aneddotiche vicende di Aristotele e Fillide. Il Filosofo è

ridotto al livello di un innamorato folle. Si racconta che un giorno si fosse invaghito così perdutamente di Fillide, l’etera, da non aver più volontà propria e da divenire ormai preda spensierata di ogni capriccio di lei. E così quella famosa puttana ingiunse al pensatore di precederla ovunque, a quattro zampe; e lui, privo di volontà, obbediva gattonando follemente e umilmente, fungendo persino da cavalcatura alla sua signora e padrona.5

Vi chiederete in cosa si somiglino le vicende e cosa vi sia di attrazione filosofica. Ebbene, il punto è che la questione temporale è messa tra parentesi. Al contrario della scienza che non riesce a mettere l’epoca in epoché6, il filosofo seduttore (attraente) sa aspettare: «Niente impazienza, niente avidità, tutto sarà goduto a suo tempo».7

Il polo attrattivo attrae; il dado è attratto. L’attrazione dell’astrazione, in questo nulla che ci circonda, sembra un moto a luogo; ed invece è uno stato in luogo. Chiudiamo il cerchio. Sloterdijk commenta un’incisione di Hans Baldung Grien, che ritrae lo Stagirita cavalcato da Fillide:

Il maestro di color che sanno, con la barba canuta, sguardo volto all’osservatore, traversa a quattro zampe un giardino circoscritto da mura, mentre una Fillide assai formosa [l’opposto dell’Ulisse citato nella nota 4] per vita e deretano s’ingroppa lo stempiato pensatore. (…) Per il filosofo, che una Fillide lo voglia cavalcare, da un lato costituisce un monito, ma dall’altro anche l’occasione di saggiare dove tutto ciò conduce. (…) Aristotele non resterà sempre in quella scomoda situazione. La vicenda, per lui, inizia carponi, ma, se è davvero intelligente e saggio come si dice, finirà supina…8

L’incertezza di cominciare carponi per finire supini; ecco, questa la sfida dell’attrazione; ecco, questo è timore e tremore.

Note
1. Platone, Simposio, 216 c, citato dall’edizione Laterza, Roma-Bari 2007, pag. 103.
2. Se c’è qualcuno che viziò Alcibiade, ebbene, questa fu Atene stessa; salvo poi sculacciarlo per i suoi capricci.
3. P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, Garzanti, Milano 1992, pag. 122.
4. S. Kierkegaard, Diario del seduttore, Fabbri editori, 2001, pag. 78. Subito dopo cita questi versi: «Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes / et tamen aequoreas torsit amore Deas».
5. P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, cit., pag. 224.
6. Cosicché abbiamo una scienza aristotelica, una razionalistica, una empiristica, una romantica, una positivistica, una post-moderna; tanto per dirne alcune. Ma dire scienza e dire scienza del proprio tempo è una tautologia; la filosofia, pertanto, non è scienza, ma dà il tempo alla scienza. Ça va de soi.
7. S. Kierkegaard, Diario del seduttore, cit., pag. 30.
8. P. Sloterdijk, Critica della ragion cinica, cit., pag. 224-226.