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La guerra democratica

Il mito che Platone mette in bocca a Protagora1 coglie il nucleo essenziale riguardo non solo alla nascita della cultura e della tecnica in generale, ma anche all’acquisizione della politikèn tèchnen.
Tale mito si presenta come una strenua difesa della democrazia,poiché è una risposta all’accusa di Socrate verso l’uguaglianza della facoltà di parlare vigente nell’assemblea ateniese. Socrate, difatti, si chiede perché se un ateniese quando ha bisogno di costruire una nave o una casa si rivolge ad uno specialista, quando invece si tratta del modo di condurre gli affari dello stato chiunque, un architetto, un fabbro, un calzolaio, un povero, un ricco, può dire la propria e dare consigli. L’aspetto che qui più interessa Socrate è che viene ascoltato anche chi non ha avuto maestro riguardo alla tecnica politica2.
Evidentemente, gli ateniesi ritengono che la tecnica politica non sia insegnabile e che tutti la posseggano in maniera, come dire, innata. Pertanto, Protagora espone il mito di Epimeteo e Prometeo al fine di mostrare in maniera più piacevole, senza esporre l’argomento per mezzo di ragionamenti, come la tecnica politica è stata distribuita a tutti gli uomini.
In realtà, la potenza del mito fa sì che, per giungere al suo scopo, si disseminano per la via fecondi germogli inaspettati. Vedremo quali.
Protagora racconta che quando venne il tempo della nascita delle stirpi mortali gli dèi incaricarono Epimeteo e Prometeo di distribuire a ciascuno le facoltà naturali in modo conveniente. Epimeteo si occupa di svolgere l’incarico chiedendo a Prometeo che alla fine controlli il suo operato; così vengono distribuite a ciascuno queste facoltà, queste potenze (dynámeis), dimodocché ciascuno possa provvedere a se stesso: a chi Epimeteo diede forze non diede velocità; quest’ultima diede ai deboli; a taluni piccole dimensioni e ali per fuggire; ad altri una grande mole e così via. Perdipiù, a protezione delle intemperie delle stagioni, prodigò peli e pelli, zoccoli, unghie, artigli e cibi diversi.
Epimeteo, tuttavia, poiché non possedeva una compiuta sapienza, distribuì tutte le facoltà naturali agli esseri privi di sapienza e non rimase nulla da dotare agli uomini. A trarlo d’imbarazzo è Prometeo, il quale ruba il fuoco ad Efesto ed il sapere tecnico ad Atena, donandoli all’uomo. Gesto che, come accenna anche Protagora, gli costerà caro.
Tuttavia, sebbene gli uomini acquisirono la parola e cominciarono ad edificare, ancora vivevano sparsi e perciò venivano uccisi dalle fiere. Cercarono di radunarsi e fondare città, ma mancando della tecnica politica si azzuffavano, si disperdevano e morivano nuovamente in preda alle belve.
Dunque Zeus, timoroso che il genere umano si estinguesse, inviò Ermes a portare loro pudore e giustizia. Quest’ultimo chiese come si dovessero distribuire: se, per esempio, come l’arte medica, tale che un solo individuo che la possiede basta per molti, oppure indifferentemente a tutti. Zeus rispose di distribuirli a tutti giacché altrimenti le città non sarebbero potute esistere.
Bene, questo, grosso modo, il mito narrato da Protagora. La narrazione, seppure non argomenti alcunché, presenta senza dubbio il vantaggio della possibilità di variazione; cosicché, per esempio in questo mito, apparentemente è in atto una visione benevola di Prometeo, contrariamente a quanto accade in Esiodo3, per il quale Prometeo è colui che, sebbene indirettamente, è causa di ogni male per il genere umano; egli infatti è colui che affida il vaso in cui si trovano tutte le Pene a suo fratello Epimeteo, il quale, per scongiurare l’ira di Zeus, sposa Pandora, una donna creata da Efesto e adornata da tutte le dee dell’Olimpo. Pandora era bella, stupida e malvagia. Inevitabilmente, ella aprì il vaso che Prometeo aveva scongiurato di tenere chiuso:

la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione […] volarono via a stormo e attaccarono i mortali. Ma la fallace Speranza, che Prometeo aveva pure chiuso nel vaso, li ingannò con le sue bugie ed evitò così che tutti commettessero suicidio4.

Orbene, la multiformità del mito offre la straordinaria possibilità della variazione formale; una variazione che racchiude sempre molteplici sfaccettature, pur nella trasfigurazione univoca del significato. La domanda da porsi è la seguente: il mito di Esiodo che considera Prometeo la causa indiretta del diffondersi delle Pene con l’unico palliativo della Speranza e il mito di Protagora in cui Prometeo è causa indiretta della nascita della polis, ebbene, queste due differenti versioni come si toccano? Hanno punti in comune o, per caso, si escludono? E se si escludessero, non cadrebbe con ciò la multiformità del mito a vantaggio di una verità unica e scritta una volta per tutte in un testo sacro? Ma così il mito non sarebbe più tale5.
Vi sono due passi molto significativi del mito narrato da Protagora e che forse possono sfuggire ad una lettura superficiale. Il primo ci fa notare che nel suo essere naturalmente nudo e “impotente”, l’uomo è indifeso, inabile alla guerra, pur con tutte le tecniche che all’inizio gli vengono donate. Può parlare, costruire altari e case e persino può praticare l’agricoltura. È inabile, però, a difendersi dalle fiere; è imbelle, precisamente per un motivo all’apparenza strano: egli manca di tecnica politica. L’arcano è svelato da Protagora in una frase messa quasi tra parentesi, come fosse una precisazione scontata: politikèn gàr téchnen oúpo eìchon, es méros polemiké6: «[gli uomini] non erano ancora dotati di tecnica politica, di cui quella bellica è parte». L’uomo non poteva difendersi dagli animali perché non possedeva la tecnica politica e di conseguenza la tecnica bellica. È una maniera vellutata per dire che non c’è guerra senza politica, che anzi la guerra, niente più niente meno, nasce con la politica e ne è una sua parte. E tuttavia, certo, qui si tratta di guerra extra-specifica, rivolta dall’uomo verso gli altri animali; la differenza e la giustificazione di questa guerra rispetto alla guerra di altro tipo sono date dal fatto che gli animali non sono dotati di ragione ma possiedono la potenza, le facoltà naturali; gli uomini, invece, essendo impotenti, possiederanno la tecnica e con questa dovranno difendersi; difatti Zeus dona loro la tecnica politica nella veste di pudore e giustizia per timore che essi vengano distrutti dalle fiere.
Ma c’è dell’altro. Il secondo passo significativo a cui mi riferivo è il seguente: Zeus, dopo aver risposto a Ermes di distribuire a tutti pudore e giustizia così chiosa: «Istituisci, dunque, a nome mio una legge per la quale sia messo a morte come peste della città chi non sappia avere in sé pudore e giustizia»7. Questa precisazione introduce alla guerra intra-specifica; la quale però si presenta in maniera ben più temibile e sottile della guerra extra-specifica.
La tecnica politica ha affinato i suoi mezzi; l’ordine tecnico della polis, questa sorta di pax technica, non tollera chi non possiede tecnica politica; solo indirettamente la guerra intra-specifica riguarda la sopravvivenza degli uomini, giacché in primis è in gioco la sopravvivenza della polis; o più precisamente: della polis democratica. Non è per nulla scontato che Protagora parli in generale; anzi è certo che donne e schiavi siano privi di diritti politici (diremmo oggi) giacché non hanno tecnica politica. Perciò non è per nulla legittimo allargare questo discorso, che so, all’impero persiano o all’Egitto dei faraoni; già per Sparta, però, la questione si complicherebbe.
Il punto della questione, ad ogni modo, rimane questo: chi non ha giustizia (e pudore) non ha tecnica politica; ossia, chi non ha tecnica politica è ingiusto. Dunque, questo ragionamento conduce a considerare ingiusto chiunque non possegga la tecnica politica; ma Protagora non dice che è impossibile la convivenza tra gli uomini (anche se prima l’aveva lasciato intendere), bensì fa dire a Zeus che le poleis non potrebbero esistere senza quelle qualità. Dunque qualsiasi ordinamento che non sia la polis potrebbe anche darsi.
In aggiunta, è considerato ingiusto chi non possiede una tecnica politica democratica. Solo colui che nella polis dove è riconosciuta a ciascun cittadino la tecnica politica, solo colui che in democrazia o da un’ottica democratica non è democratico, ossia non riconosce a tutti l’innata tecnica politica, è tacciato di ingiustizia. Chi non ha giustizia, come abbiamo già detto, non ha tecnica politica; ma la tecnica politica deve per forza essere propria di tutti, altrimenti non si può dare democrazia. Basta un solo uomo ingiusto a far vacillare la concezione democratica; per questo egli deve essere messo a morte.
Per forza di cose, dunque, il nemico della democrazia è un nemico ingiusto, concetto, questo, che porta con sé la pratica della guerra giusta. La polis democratica, stando al mito narrato da Protagora, si configura pertanto come il prototipo della tecnica politica dalla cui parte stanno pudore e giustizia, contro cui si stagliano gli ordinamenti spudorati e ingiusti. La guerra contro questi nemici non può, dunque, che essere una guerra giusta.
I miti prometeici si congiungono sia, come salta subito all’occhio, per le buone disposizioni di Prometeo verso il genere umano, sia per l’essere causa indiretta di sventure e per la compensazione di tali Pene con inganni: nel mito narrato da Esiodo, abbiamo visto, è la Speranza che, tramite inganni che rendono sopportabili la Vecchiaia, la Fatica, la Malattia, la Pazzia, il Vizio e la Passione, evita il suicidio degli uomini; nel mito del Protagora seppure Prometeo doni il fuoco e le tecniche ed indirettamente faccia sì che Zeus distribuisca la tecnica politica, d’altro canto è proprio quest’ultima che ha in sé la guerra extra-specifica ed intra-specifica. Anche qui v’è una Speranza che inganna e rende sopportabili le Pene che affliggono i mortali: la speranza che la politica, nella fattispecie quella democratica, possa scongiurare gli agguati delle fiere e possa condurre alla pace, tramite pudore e giustizia; una speranza che copre con l’inganno la verità della guerra come parte inscindibile della tecnica politica.

Note
1. Platone, Protagora, 320c segg., nell’ed. Laterza (Roma-Bari 2007) pagg. 27-33.
2. A maggior comprensione di come e chi in realtà intervenisse nelle assemblee ateniesi del V secolo a. C. : «È assai improbabile che imbecilli o incompetenti avessero parte significativa negli affari pubblici, più di quanto non avvenga nel mondo d’oggi. Di per sé, l’assemblea era assai meno incompetente di quanto generalmente si supponga; se un cittadino partecipava anche a solo metà del numero minimo di sessioni annuali, assisteva a una ventina di dibattiti sostenuti dalle persone più abili nello stato. […] Inoltre, si svolgevano veri e propri dibattiti, nel corso dei quali era impossibile far ricorso a discorsi preparati a priori. Gli oratori dovevano improvvisare risposte estemporanee a domande e argomentazioni precise da parte degli oppositori; né si avevano irresponsabili esibizionismi ma solo controversie affrontate con serietà, che portavano immediatamente a votazioni di conseguenza decisive per gli oratori e l’uditorio. Supponendo che ogni individuo presente all’assemblea avesse assistito a discussioni del genere per soli dieci anni in media, ci si renderà conto che quest’esperienza da sola bastava a formare un notevole corpo di votanti, con ogni probabilità più illuminato ed esperto di ogni altro gruppo del genere nel corso della storia» (D. Kagan, Pericle di Atene e la nascita della democrazia, Mondadori, Milano 1991, pagg. 75-76). Ci viene così presentata l’assemblea come unica insegnante della tecnica politica.
3. Cfr. Esiodo, Le opere e i giorni (Erga), vv. 42-105, in Id., Opere, ed. Mondadori (Classici Collezione 2007), pp. 57-59.
4. R. Graves, I miti greci, Longanesi, Milano 2006, pag. 130.
5. Roland Barthes così sintetizza la questione: «Il mito non si definisce in base all’oggetto del suo messaggio, ma dal modo in cui lo proferisce: ci sono limiti formali al mito, non ce ne sono di sostanziali» (R. Barthes, I miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, pag. 191). Tuttavia, se è vero che, proseguendo il discorso di Barthes, tutto può essere mito, l’impostazione di quel saggio lascia trapelare una certa confusione tra mito e moda; tale sovrapposizione, a mio avviso, è scorretta, fosse solo perché questa è invischiata nel tempo, quando il mito, invece, in qualche modo vi si sottrae. L’obiezione di fondo che si potrebbe rivolgere al libro di Barthes è la seguente: leggendo, per esempio, i miti greci riusciamo a comprendere, almeno un po’, di cosa si parli; leggendo, per contro, i miti d’oggi del tuo saggio sfido chiunque a ricordare cosa siano tutti gli oggetti dei vari capitoli e a comprendere quale senso essi abbiamo ‘oggi’ (per restare in tema) per noi.
6. Protagora, 322b.
7. Protagora, 322d, nell’ed. Laterza (Roma-Bari 2007) pag. 31.