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«E sotto avverso ciel – luce più chiara»

La peregrinazione assume la forma dell’andare ad una meta rigenerante; nell’ammasso Giubilante o nell’a-storico islamismo pur (anti-)Mecca(nico), l’errore dell’andare dimentica la pura erranza. Le distanze vengono colmate orizzontalmente nell’illusione che l’orizzontalità possa condurre alla verticalità. La Croce è dimensionalmente (spazialmente!) paradossale.
Il pellegrinaggio del religioso o del Wanderer romantico che anela l’Assoluto è mera rettorica. La persuasione è l’andare verticale. L’insostenibile leggerezza dell’essere è una pesantezza.
Carlo Michelstaedter muore il 17 ottobre 1910 a soli ventitrè anni. Muore suicida con un colpo di rivoltella.
È uno dei due pensatori italiani più tedeschi. Assieme a Giuseppe Rensi (di cui spero di occuparmi quanto prima in questo stesso luogo) esprime la pura necessità filosofica e perciò mistica dell’approdo definitivo alla realtà. Raramente in Italia si ha una consistenza filosofica tanto vibrante e solida. Forse non si era più avuta dai tempi di Leopardi.
La rettorica, nell’ottica michelstaedteriana, è l’illusione, tutto ciò che lusinga e conduce alla Philopsichìa, l’amore per la “mente” in senso lato, ossia, potremmo dire, per la vita che si masturba davanti ad uno specchio deformante (la morale, la società, le case tranquille) e gode dell’apparenza di se stessa. Si deve scardinare la rettorica e mostrare il nudo esistere, la solitudine metafisica e reale dell’essere umano, disperso da sempre in questa sorta di forzata autarchia dalla quale, pur con tutti gli sforzi, non si può mai uscire.

So che voglio – scrive Michelstaedter – e non ho cosa io voglia. Un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del più basso, e scenda indipendentemente fino a che sia contento di scendere. – Ma in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta e vuol pur scendere, ché il prossimo punto supera in bassezza quello che esso ogni volta tenga; E nessuno dei punti futuri sarà tale da accontentarlo, che necessario sarà alla sua vita, fintanto che lo aspetti […] più basso; ma ogni volta fatto presente, ogni punto gli sarà fatto vuoto d’ogni attrattiva non più essendo più basso; così che in ogni punto esso manca dei punti più bassi e vieppiù questi lo attraggono; sempre lo tiene un’egual fame del più basso, e infinita gli resta pur sempre la volontà di scendere. – Che se in un punto gli fosse finita e in un punto potesse possedere l’infinito scendere dell’infinito futuro – in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso. La sua vita è questa mancanza della sua vita. Quando esso non mancasse più di niente – ma fosse finito, perfetto: possedesse sé stesso, esso avrebbe finito d’esistere. – Il peso è a sé stesso impedimento a posseder la sua vita e non dipende più da altro che da sé stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può mai essere persuaso.

Il movimento verticale si dà solo verso il basso. Un basso abissale.
Nell’indipendente dipendenza da se stesso, l’uomo (il singolo uomo) è scardinato, sradicato, estirpato. Questo tendere verso l’abisso del sempre più in basso è la vita. Una sorta di volontà shopenhaueriana che vuole eternamente se stessa. Lo spazio gioca intorno a questa volontà e vi si sottrae. Se si incontrasse lo spazio, il movimento abissale cesserebbe. E con ciò cesserebbe pure il peso dell’esistere.
L’essenza dello spazio, nella poetica filosofica di Michelstaedter, è negata dall’infinità del mare; questo mare che sarà sempre amato dagli uomini liberi e che (potremmo dire), come sempre ha negato la sua fruizione ai rematori delle galere. Chi è schiavo “serve” per sottrarre lo spazio ai padroni dell’abisso marino.
Ed appunto I figli del mare è il titolo che il curatore ha attribuito a questa poesia, una delle ultime e più dense, che ha scritto il morituro (come lo siamo tutti) Michelstaedter.

Ritornate alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.
Ritornate alla via consueta
e godete di ciò che v’è dato:
non v’è un fine, non v’è una meta
per chi è preda del passato.
Ritornate al noto giaciglio
alle dolci e care cose
ritornate alle mani amorose
allo sguardo che trema per voi
a coloro che il primo passo
vi mossero e il primo accento,
che vi diedero il nutrimento
che vi crebbe le membra e il cor.
Adattatevi, ritornate,
siate utili a chi vi ama
e spegnete l’infausta brama
che vi trae dal retto sentier.

La casa tranquilla, l’essere utili, le dolci e care cose, sono le illusione della Rettorica, la lusinga di un’esistenza pacata appesa ad un gancio che tenta di sostenere il peso. Soffrire nel non poter sprofondare, di-pendere dal lavoro nell’incapacità dell’affrancamento: la morte che siamo, la vita che siamo nelle trame del connubio inestricabile che si chiama realtà. La morte, questa temibile arma naturale, deve essere accettata. Chi ne ha paura è gia morto. L’esistenza dev’essere dis-armante.