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Amare un freddo cadavere

Per la presentazione di M. Sciotto, Un Carmelo Bene di meno. Discritture di «Nostra Signora dei Turchi» (Villaggio Maori Edizioni, Catania 2014) ― Teatro Coppola, Catania, 28 dicembre 2014.

La volta scorsa [«] ho parlato soprattutto di sesso e orgasmi. Spero di aver fatto godere abbastanza i presenti. Ora, forse per espiare quei discorsacci osceni, parlerò della stessa cosa, ma colta dalla prospettiva opposta, anzi ne parlerò attraverso la sua immagine speculare. Peggio per chi è mancato la prima volta; peggio per chi c’è qui oggi, perché le mie parole riguarderanno il venuto a mancare, il morto.
Anzi, grattiamo via la patina di gentilezza; cerco di essere più esplicito. Le cose stanno così: del morto si deve solo dire bene; della morte di solito si parla male. Io – ne sono consapevole – parlerò male, quindi parlerò della morte. Addirittura sarò sgarbato a tal punto che parlerò malamente di Bene, ossia parlerò male di un morto del quale si dovrebbe solo dire bene.
Sarò pure lunghetto; quindi vi farò provare più o meno le sensazioni di chi sperimenta una lenta agonia. Vi auguro che alla fine qualcuno sopravviva. Se invece moriremo tutti, allora avrò raggiunto il mio scopo di filosofo.
Anche oggi il mio sarà un discorso fanciullesco. L’altra volta ho parlato di sesso, oggi parlerò di morte. E lo sanno anche i bambini che sesso e morte si toccano, in due sensi: il primo nel senso della masturbazione autoerotica, ossia il sesso e la morte, toccandosi, godono di sé stessi; il secondo nel senso del rapporto che si instaura tra di essi. Ma che tipo di rapporto intercorre tra il sesso e la morte? In che senso la morte e il sesso si toccano a vicenda?
Il libro di Marco ci è utile anche a sciogliere questi nodi. È uno di quei libri che esaurisce un argomento, perché tocca tutto (anche Marco è erotomane, a quanto pare), tocca tutto – dicevo – ora approfondendo un argomento, ora anche solo dedicandovi due frasi. Ogni volta che devo presentarlo mi sembra sempre di tralasciare argomenti fondamentali; questo è indubbiamente un pregio, se non altro perché potremo presentarlo ancora chissà quante volte. Significa che in qualche modo il libro, pur esaurendo un argomento, è inesauribile esso stesso.
Vediamo di raccapezzarci riguardo al nostro tema e di individuare le coordinate fondamentali. È strano farlo parlando di Carmelo Bene, una delle cui frasi più indicative è: «Cominciò ch’era finita»; è strano, ma proviamoci: cominciamo dall’inizio, precisamente dall’incipit di Nostra Signora dei Turchi, uno degli incipit più belli e folgoranti ch’io abbia mai letto:

«Amami! È tanto, sai, se abbiamo salvato gli occhi! Flora, vestiti e vattene! Non c’era nessuna Flora. Oppure s’è vestita e se n’è andata. Tornando verso lo specchio: adorami!
[…] Prese un cilindro, uno dei suoi tanti da teatro, e ne trasse dal fondo una corona di spine. Se ne cinse il capo e tornò allo specchio.
[…] Tornò ancora una volta allo specchio, ma per poco.»

E poco più sotto:

«Si avvicinò come un miope alla specchiera. E, come in scena aveva sempre abusato di incidenti simili, disegnò sullo specchio, con l’estremo del dito insanguinato, i tratti essenziali della sua immagine riflessa. Solo quelli essenziali.»

All’inizio, dunque, troviamo un oggetto ricorrente, ossia lo specchio, innanzi al quale l’attore protagonista disegna i propri tratti essenziali, col sangue che gli fuoriesce da un dito a cui si era ferito. Si capisce che solo dinanzi a uno specchio possiamo vederci. Ma forse è meno intuitivo comprendere che la nostra immagine, anche e soprattutto quella riflessa, è l’idea che abbiamo di noi. Se così stanno le cose, disegnarne i tratti essenziali significa tracciare i contorni dell’idea. Un po’ tutti sappiamo che la radice del termine idea *id ha che fare con la vista, con il vedere. L’idea, intesa anche e soprattutto in senso platonico, è qualcosa che si può vedere. Dunque possiamo farci un’idea di noi stessi solo vedendoci, ossia solo davanti a uno specchio. L’idea è l’immagine essenziale della nostra figura. Ne dobbiamo concludere che la nostra immagine, l’idea che possiamo farci di noi stessi, è speculare.
Eppure non possiamo toccare la nostra immagine: tutte le idee si possono vedere, si possono immaginare, si possono concettualizzare, ma non si possono toccare. Possiamo toccare lo specchio, certo; ma non possiamo toccare la nostra essenza che si disegna sulla sua superficie.
C’è qualcosa di perturbante in tutto questo: io mi posso toccare, anche e soprattutto nel senso autoerotico a cui accennavamo prima; eppure non posso toccare la mia essenza, non posso palpare la mia immagine, non posso manipolare la mia idea. Dunque, in un senso mi posso toccare, anche piacevolmente; ma in un altro senso non posso assolutamente toccarmi. C’è quasi uno sdoppiamento della mia persona: da una parte io in carne, ossa e genitali; dall’altra la mia essenza speculare. A quest’ultima – lo dico facendo ricorso al mio infantilismo – mi piacerebbe giungere attraverso lo specchio, come Alice; tutto sarebbe invertito, allora, tutto sarebbe l’opposto di com’è adesso: probabilmente, toccando un altro toccherei me stesso e toccando me stesso toccherei qualcun altro. Allora sì che sarebbe una vera goduria! Ma purtroppo dobbiamo restare al di qua dello specchio.
Marco dedica un capitolo molto interessante alla questione, significativamente intitolato Annegare nello specchio. Il riferimento è chiaro, ma lo vedremo nel dettaglio più avanti. Giustamente Marco, a proposito dell’attore protagonista dello scritto di Carmelo Bene, nota lo sdoppiamento cui si assiste davanti allo specchio:

«Di fronte ad uno specchio, il protagonista senza nome di Nostra Signora dei Turchi è immerso in un rituale che lo impegna per intere ore delle sue giornate: fissare, il più immobile possibile e fino allo sfinimento, il proprio riflesso, la propria immagine sdoppiata».

Marco utilizza un verbo molto interessante: dice “fissare il proprio riflesso”. “Fissare” lo dobbiamo intendere nei due sensi: 1) guardare con insistenza e 2) rendere stabile, fermare, immobilizzare. Il secondo senso ci rivela molto più di quanto potrebbe apparire. Il gesto di tratteggiare col dito insanguinato i propri tratti essenziali è un tentativo di fissare la propria essenza mutevole e fuggitiva. In chiari termini nietzscheani, è un tentativo di imprimere al divenire il carattere dell’essere. Il divenire diventa essere solo a prezzo del sangue. È quasi un rito sacrificale. Cosa significa tutto questo nel nostro contesto? Significa che quando noi assomiglieremo perfettamente ed eternamente alla nostra immagine, allora potremo cogliere e toccare la nostra essenza. Ma la nostra immagine è mutevole, cangiante, in perenne divenire. Vi sono due sole circostanze in cui la nostra immagine è fissata perennemente a noi stessi, ossia in cui noi appariamo nella nostra essenza immutabile: il sogno e la morte. Nel sogno vive la nostra immagine perfetta; con la morte, muore la mutevolezza delle nostre vive fattezze: la nostra immagine non cambierà mai più, una volta disfatto il nostro corpo. Siamo congiunti a noi stessi, ci possiamo toccare solo quando siamo solo immagine, ossia nel sogno e nella morte.
(Noto per inciso che quanto ho appena detto è il fondamento della psicologia: la psiche, già da Omero, è l’immagine del corpo che permane dopo la morte. I poemi omerici parlano di psiche solo quando qualcuno muore e qualcosa – la psiche, appunto – si libera e giunge nel regno dei morti. La nostra immagine nei sogni e nello specchio è la nostra psiche. Freud lo sapeva bene: l’epigrafe de L’interpretazione dei sogni riporta un verso di Virgilio: Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo. Ossia: “se non potrò muovere gli dèi Celesti, scuoterò gli Inferi”. Indagando gli atti psichici nei sogni, è degli inferi che si sta parlando. Chi nega la psicologia, in realtà vorrebbe negare la morte.)
Ma dunque di cosa ci avverte lo specchio? Lo specchio ci avverte che la nostra immagine speculare ci sfugge, non siamo noi, è qualcos’altro da noi eppure è la nostra essenza. Più precisamente, è la nostra essenza, che si rivela astraendo dal nostro corpo materialmente, fisicamente presente; è la nostra essenza assente. Assenza ed essenza: questo è la nostra immagine, questo è la morte. Da morti resterà di noi solo la nostra essenza assente, saremo assenti eppure la nostra essenza – ossia i tratti essenziali della nostra figura – perdureranno per sempre, per l’eternità (certo, si tratta comunque di quell’eternità umana, che dura quanto il ricordo, che può durare al massimo quanto durerà l’umanità stessa).
Nello specchiarci cerchiamo la nostra essenza assente, ovvero la nostra assenza essenziale, l’idea di noi stessi che sempre ci sfugge. Non possiamo toccarla, non possiamo toccarci semplicemente perché, nell’essenza, non ci siamo. «Noi non siamo al mondo», direbbe Rimbaud.
In questo vicolo cieco, anzi in questa mancanza di tatto che ci fa parlare del morto come se nulla fosse, che ci fa dire che non possiamo toccarci, ci soccorre un passaggio di Marco, che individua nel rapporto dell’attore protagonista con lo specchio un elemento narcisistico, come il titolo del capitolo – Annegare nello specchio – suggeriva direttamente:

«È un narcisismo tutto particolare che, paradossalmente, non lascia spazio all’amor-di-sé ma cerca l’assenza – di spazio, di tempo e di sé – nella propria immagine devitalizzata».

Con questa precisazione, abbiamo aggiunto un tassello fondamentale, vale a dire il narcisismo. Ma quello di Bene, come suggerisce Marco, è un narcisismo devitalizzato.
Ora, tutti conosciamo bene o male il mito di Narciso, il bel giovane di cui tutti si innamorano, maschi e femmine, e che tutti rifiuta sdegnosamente, per venire alla fine punito da Artemide o da Nemesi, a seconda della versione: specchiandosi in un fonte, si innamorerà dell’immagine che vi scorge, rendendosi conto solo in un secondo momento che in realtà si tratta solamente del proprio riflesso.
Disperato per l’impossibilità di questo amore (seppure confortato dalla consapevolezza che almeno lui stesso non si tradirà mai, sarà l’amante fedele), Narciso si toglierà la vita. L’indovino Tiresia aveva detto di lui: «Narciso vivrà fino a tarda età, purché non conosca mai sé stesso». Questi indovini profetizzano sempre sventure. Ogni volta dicono: «Vivrai fino a quando sarai vecchio, a meno che tu non faccia questa cosa». Paradigmatico è il caso di Achille. È vero, non è che ci voglia molto a far questo tipo di profezia: “Vivrai fino a quando sarai vecchio, a meno che tu non fumi, non beva, non vada in guerra…” Ma il caso di Narciso è un caso a sé, perché riguarda qualcosa che di per sé non dovrebbe essere dannoso, ossia la conoscenza. Possiamo sciogliere le parole dell’indovino Tiresia in termini più chiari. La sua profezia significa che la conoscenza, anzi, più precisamente la conoscenza di sé stessi, è morte. Giustamente Marco dice:

«Se pensiamo al mito di Narciso e alle sue infinite articolazioni e interpretazioni, quello che emerge è sempre il suo amore per la propria immagine riflessa e soprattutto la sua inconsapevolezza del fatto che quell’immagine sia effettivamente la propria, consapevolezza che raggiungerà proprio annegandovisi e che quindi farà tutt’uno con la sua morte».

Tuttavia, esiste anche un’altra versione del mito, riportata da Pausania. È una versione probabilmente meno nota, che parte dal presupposto che nessuno è così stolto da non saper riconoscere il proprio riflesso. Secondo questa versione, Narciso aveva una sorella gemella che gli somigliava tantissimo e che egli amava. La fanciulla, però, venne a morire. Un giorno Narciso, vagando per i boschi cercando di alleviare il proprio dolore, capita per caso presso un fonte; chinandosi su di esso scorge un viso uguale al proprio nell’acqua e all’inizio crede di riconoscervi l’amata e defunta sorella. Tuttavia, presto capisce che si tratta solamente del proprio riflesso, ma, nonostante ne sia consapevole, lo stesso ne trova conforto, gli piace immaginare di vedere la sorella ormai perduta per sempre.
Di questa versione esiste una bellissima rielaborazione poetica di Pascoli, a tratti molto commovente, che si trova nei Poemi conviviali e che si intitola I gemelli. Per esempio, ecco come descrive la prima volta che Narciso si affaccia sul fonte:

Il giovinetto si chinò sul fonte,
e la fanciulla apparve su dal fonte.
Egli era mesto, ed era, anch’ella, mesta.
Ma le sorrise, ed ella gli sorrise.
Aprì la bocca per chiamarla a nome;
subito anch’ella aprì la bocca a un nome.
Ed egli chiese, chi l’avea rapita,
se lieta le era la solinga vita;
ed ella presto rispondea, ma troppo,
ch’ella parlava mentre egli parlava.
Ed egli tacque, ed ella tacque: allora
egli riprese, ma riprese anch’ella.
E il giovinetto non intese, e pianse.
E la fanciulla si confuse, e pianse.

La contemporaneità, o più precisamente la simultaneità dello specchio diventa straniante, anzi, per dirla con il linguaggio psicanalitico, diventa perturbante. Questo turbamento ci coglie non appena si attua la sovrapposizione di due figure identiche eppure distinte. Lo stesso tipo di straniamento lo deve aver provato il dottor Jekyll. Egli stesso confessa che durante il primo periodo non ci fossero specchi nel proprio studio, ma che ne fece portare uno proprio in funzione delle trasformazioni. Nel vedersi tramutato in Hyde, nello scorgere nello specchio quell’«idolo ripugnante» – come lo definisce egli stesso –, Jekyll confessa di non aver provato repulsione, quanto piuttosto una sensazione di gioia. Eppure, lo sguardo esterno del domestico comprende bene come stiano le cose: «Quella cosa non era il mio padrone, e questa è la verità».
Di nuovo ci troviamo di fronte alla situazione di prima: Hyde e Jekyll sono e non sono la stessa persona. Addirittura, Hyde, il Doppelgänger, è definito dal domestico come “quella cosa”. La figura speculare, sulla quale possiamo disegnare i nostri tratti essenziali, marchiandoli col sangue, è una “cosa”. Possiamo accorciare: essenzialmente, noi siamo “cose”.
Ma torniamo all’ambiguità di Narciso, maschio vivo e morta femmina a un tempo.
Prima di tornare a casa, chiamato dalla madre, il fanciullo Narciso accosta il volto a evanescenti labbra, per baciare la piccola sorellina che crede vivere nel fonte:

«Le labbra
chinò… che freddo in quelle dolci labbra!
Le diede un bacio sussurrando, Addio!
Ed un gorgoglio udì nell’acqua: Addio!»

Ma pure quando poi Narciso si rende conto che quello non è altro che il suo riflesso, non cessa di recarsi al fonte:

«Ed egli allora oh! sì, capì. Ma venne
per molti giorni al tralucente lago,
a rivedere in sé la sua sorella
che in lui viveva; ed esso in lei moriva».

Il quadro è completo. L’ultimo verso è da sottolineare, perché è molto importante per il nostro tema: «la sua sorella | che in lui viveva; ed esso in lei moriva».
Narciso bacia le gelide labbra del riflesso. Questo bacio da fiaba sortisce un effetto ambiguo: non risuscita alla vita, ma confonde vita e morte: la sorella morta vive nel fratello vivente; il fratello vivo muore nella morta sorella.
Arrivati a questo punto, finalmente possiamo giocare a carte scoperte e dire come stanno le cose fuor di metafora: il fanciullo Narciso è la conoscenza, proprio quella conoscenza che come dice Tiresia non appena conosce sé stessa muore. La fanciulla è la morte. La conoscenza, ossia, in termini più precisi, la filosofia, muore nell’atto stesso del conoscere; la morte vive nella filosofia. Questo avviene costantemente, senza soluzione di continuità.
La conoscenza è sempre narcisista: io posso conoscere solo me stesso (di questo abbiamo discusso la scorsa presentazione), e tuttavia non mi posso conoscere, perché in quanto oggetto di conoscenza io divento la mia immagine, ossia il mio riflesso speculare disegnato col sangue nei miei tratti essenziali, vale a dire segnato a morte.
Un passo del libro di Marco riassume compiutamente tutto quello che sto cercando di dire:

«Un Narciso che si annega nel proprio riflesso – perfettamente consapevole che di riflesso si tratta e che quello è una finzione della propria immagine – per annullarsi in esso e non per troppo amore di ciò che rappresenta. Ché, di fatto, non rappresenta nulla. Non vi è insomma l’illusione dell’altro da voler raggiungere, come nel mito di Narciso, quanto la volontà di ridursi ad immagine illusoria di se stesso, di raggiungere quella proprio perché illusoria, identificandosi col riflesso morto allo specchio.»

Ogni volta che ci guardiamo allo specchio, cerchiamo di scorgere la nostra essenza. È vero che guardarsi allo specchio è vanità; però nel senso genuino, ossia quello per cui la vanità è un nulla. Anche quando dobbiamo uscire – per andare con gli amici, per andare a ballare, per un appuntamento con la persona che ci piace – in realtà ci guardiamo per vedere il nostro nulla, per scongiurarlo, per esorcizzarlo o per amarlo, come Narciso.
Guardandoci allo specchio, compiamo il più inconsapevole e profondo atto di conoscenza, perché ci confrontiamo col nulla. Davanti a uno specchio, siamo tutti filosofi. Per questo “ci diamo una sistematina”, ci trucchiamo, ci pettiniamo… in un parola, ci mascheriamo: — per non ammettere che la nostra essenza è assolutamente filosofica, ossia che la nostra conoscenza è un tentativo filosofico di penetrare il segreto assoluto e spaventoso della morte.
Filosofia è amare la morte. Amore per la conoscenza è amore per un freddo cadavere. L’unico senso dell’amor fati, dell’amore per il destino di cui parla Nietzsche è l’amore per la morte. Dobbiamo amare il nostro destino; ma cos’è il nostro destino? Pur con mille sfaccettature, anche per miriadi di strade diverse, il nostro è un destino di morte, la morte è il nostro destino. Come che sia, per qualsivoglia vicissitudine, il fato ci conduce alla morte. L’amor fati, quindi, è amor mortis. Solo allora potremo conoscere qualcosa, quando saremo morti. Solo allora le nostre labbra narcisistiche potranno toccare le fredde e liquide labbra della morte: solo allora la conoscenza potrà capire la morte, nonostante questa le sfuggirà comunque. Solo allora potremo capire che il cerchio si chiude, che per tutta la vita abbiamo inseguito il nostro riflesso, ossia l’essenza che si vede in specchi, sogni e cadaveri. Per tutta la vita cerchiamo di conoscere; ma toccando la morte capiamo che per tutta la vita abbiamo conosciuto solo noi stessi, tuttavia solo come oggetto di riflessione, come cadavere immobile.
Io dico “amore e morte”; ma quando dico amore, lo dobbiamo intendere in senso complesso, pieno: di quella complessità dell’amplesso. Allora l’espressione si muta così: filosofia è scopare la morte. Certo, è un rapporto incestuoso, si tratta di fratello e sorella, per di più gemelli: «Fratelli a un tempo stesso | ingenerò la sorte», direbbe Leopardi. Ma il mito non ci deve ingannare: tolta l’apparenza, il filosofo capisce che sta scopando sé stesso. Si tratta di masturbazione, certo. Ma anche di necrofilia, se è vero che il filosofo si scopa i propri tratti essenziali. Possiamo tramandare ai posteri questa immagine, e valga stasera come mio lascito, come mio testamento: il filosofo è un cadavere che si fa una sega.
Per tutta la vita si cerca di muoversi, di inseguire il divenire, di coglierlo concettualmente. Poi un giorno si muore, ossia si comincia a filosofare (quando non si muore proprio in senso biologico). Allora si conosce la profonda malinconia del pensiero e dell’esistenza, fatti di tante “cose”, di ombre e immagini che avrebbero potute essere e che mai non sono state. È questa la tonalità emotiva fondamentale dell’esistenza: la malinconia, tutta romantica, per ciò che potrebbe essere stato e non è stato mai.
Quando il filosofo si accorge di questo, compie l’amplesso, si arresta, lo spasimo e l’ansimare cessano, giunge all’orgasmo dei morti, alla comprensione concettuale, alla fissità delle immagini, alla visione delle idee platoniche. Questo orgasmo, frutto di masturbazioni mentali, è quello che Spinoza chiamava amor Dei intellectualis. Nietzsche ne diede una formulazione metafisica che abbiamo già citato prima: imprimere al divenire il carattere dell’essere. Arrestando il divenire, come dopo l’orgasmo si arresta il coito, finalmente avviene la comprensione concettuale. Dopo, almeno per un po’, non si ha più voglia, — né di scopare, né di conoscere.
Prima di concludere il nostro amplesso di stasera, qualche breve conclusione che segue dalle cosacce che ho detto:

  • la masturbazione è l’unico modo per conoscere sé stessi;
  • Apollo è il dio della masturbazione, Socrate il suo profeta;
  • dèi, madonne e santi si invocano per i morti e per gli orgasmi;
  • imprimere al divenire il carattere dell’essere, ossia imprimere alla filosofia il carattere della morte;
  • l’orgasmo è una piccola morte: tutto quel movimento per raggiungere la pace dei sensi;
  • la pace dei sensi: dopo l’orgasmo, dopo la conoscenza;
  • chi si ferma è venuto;
  • qui mi fermo; vediamo chi viene dopo di me.

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