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«Maldidenti»

Johànn.
Sebàstian.
Bàch.

Con queste paroline armonizzate in sequenza sonora, canora ed epica si è chiuso il mio personale 2012. Probabilmente anche quello di oltre un centinaio di persone, tutte quelle ai piedi del palco del teatro cittadino catanese. Ormai ritengo inutile, ozioso, superfluo chiamarlo col suo bel nome, «Teatro Coppola»: quello è il teatro cittadino di Catania, non c’è altro con cui confonderlo. Non ho la minima intenzione di scrivere qualcosa in merito allo spettacolo musicale e teatrale offerto il 29 (e replicato il 30) dicembre: che ne vuoi dire? Parliamo della bellezza intatta della musica di Bach? Dell’inevitabile commozione che coglie chi non è stolto fino al midollo al solo sentire certi passaggi che giocoforza fanno vibrare la corda interiore, proprio il core (napoletano, inglese, diagonalmente europeo)? Oppure parliamo degli artisti sul palco, della formazione, preparazione e performazione di questa idea? O ancora vogliamo discutere sul serio dell’importanza di un progetto così ben riuscito in un contesto che, si vede chiaro, finge di non accorgersi di niente ormai? Ovviamente no, non ha senso parlarne. Bisognava esserci o, meglio: bisognava starci. Sì, era meglio starci, c’è da fidarsi. Si potrà farlo in altri modi, forse non c’è dubbio, ma non sono un tipo che spera: non sono certo uno di belle speranze, ecco.

Eppure a mio modo ci son stato. Quest’anno scorso ho fatto quel che ho potuto, cioè poco o niente, per starci, ma ci son stato. E il «nuovo» anno (“un anno, di nuovo?“) mi ricorda subito che a sperare si fa bene, a disperare meglio. Disperato compio trenta anni (“che palle queste cifre tonde così natalizie, così piene di aria!“), neanche il tempo di iniziare, e la terza mola critica è quella del giudizio, che si fa viva e subito t’ammazza giusto per farti presente una serie di cose, tra le quali: va bene quello degli altri ma non trascurare il corpo tuo; il dolore è per lo più naturale e congenito dunque non si può evitarlo a lungo; maturare cifre tonde significa soprattutto soffrire in corpore più che in ispirito; hai voglia a imbottirti di cultura a mo’ di strato esterno difensivo tanto la natura ti colpisce dall’interno e soprattutto freudianamente proprio in bocca (da dove le cose entrano ed escono di continuo, a ritmo serrato, spesso però senza sentirne il vero effetto); se tu fossi una donna, a quest’ora, invece di spuntare un dentino nuovo sarebbe apparso un bel bambino… E rimbrotti simili.

Insomma, chiudi l’anno a suon di cultura e apri l’altro con cento colpi di spazzolino prima di andare a dormire. Si sa che il problema è sempre l’inizio… Molti miei coetanei (così si definiscono loro, ingenui) hanno già mariti, mogli e soprattutto figli. Figli. Ma, dico io, il loro mal di denti dev’essere davvero insopportabile! O son fatto di ferro io o sono loro ad essere mammolette (il termine è perfetto), mi dico. Sarà che quello «strato esterno difensivo» regge ancora bene, tutto sommato; o non so davvero. Forse, semplicemente, come il Cristo non apocrifo, mi costringo per dettami superiori (ma per nulla paterni) a immolarmi alla croce culturale, croce che impone la castità del corpo e l’orgia dello spirito. E un mal di denti, a cifra tonda, tenta disperato, proprio come me, di ricordarmi i doveri naturali. Segue a ciò la letterina al mal di denti:

Rispettabile Maldidenti,
innanzitutto chiariamo una cosa: non riesco a capire perché ti fai vivo se non servi a niente. Tutti i dolori del corpo hanno una funzione, ma la tua quale sarà mai? Spunta una nuova mola, e allora? È fisiologico, no? Non ci sono infezioni, giusto? Non si rompe niente, no? E allora perché diamine mi avverti in maniera così plateale della cosa? È chiaro, a pensarci quando la mente è di nuovo lucida a sèguito del piccolo grande trauma, che esisti solo per ricordare quanto appena elencato, per ricordare l’inutile necessità dei processi naturali, per ricordare a tutti, agli ammogliati come ai casti, indistintamente agli adepti fedelissimi e agli integerrimi dissacratori della vita, che si vive solo per mangiare, bere, cacare e figliare (non per forza in quest’ordine, per carità). Ecco, io apprezzo sinceramente lo sforzo piuttosto energico, benché molto poco dialettico, di convincermi a «mutar direzione». Apprezzo, ma mi trovo costretto a rifiutare, per una serie di cose tra le quali: sai, «il problema è l’inizio», quindi una volta messi per strada viene sempre più difficile cambiare rotta, così poi, di punto in bianco (anche per orgoglio, figurati); parliamoci chiaro, bella la natura ma non quella umana (l’uomo ha di bello solo l’artificio); non mi fido del tempo, artificio umano ormai passato (da tempo, appunto) dalla parte delle cose  “naturali”, quindi preferisco non curarmene proprio, del tempo mi piace solo il ritmo, l’ultimo aspetto rimasto artificiale, quel ritmo che all’attore fa dire «Johànn. Sebàstian. Bàch», e nulla di più; il corpo sarà importante per te, perché ti ostini a risuonare in bocca senza motivo apparente (l’ho detto il perché), ma un uomo insano come me non si cura del corpo proprio, è piuttosto curatore di un corpo del tutto diverso (quando può, come può, se può, ma ci prova), si cura solo del corpo del testo; partorire un’opera piuttosto che un figlio, vorrei ricordare infine giusto per accorciare la letterina, è cosa ben più impegnativa ardua coraggiosa e diciamo pure impossibile (incinta sono appena stato e già, come tutti genitori, non ne posso quasi più). Allora va’ via maldidenti, e non farti rivedere presto.

A proposito di tutto questo ammasso pseudo confuso di lingue e fastidi, sempre più mi convinco della fondatezza del motto britannico: «Everything In Its Right Place». Sempre meno ho dubbi sul fatto che in rete, come in televisione, trovino il loro spazio più consono le cazzate. Che nei libri si trovi meglio la parola. E che a teatro siano di casa gli atti, i fatti. La morte sua, come si dice a ragione, la morte dell’azione è l’atto; e l’atto, – non il primo o il secondo o il terzo, ma proprio: l’Atto, – sta a teatro. Se si è in cerca di cazzate, si «navighi» (che verbo improprio), se si vuole vedere finalmente una parola si sfoglino le opere letterarie, se si è in cerca di fatti, si vada a teatro e vi si resti in piedi per tutto il tempo che in piedi sta l’attore, se si può. Viene fuori un così bel suono:

Johànn.
Sebàstian.
Bàch.