Archivi tag: Dante

«Morìa»

Già nella Prefazione dedicata all’amico Tommaso Moro, Erasmo descrive il suo Elogio come uno svago per lo studioso di lettere, svago che però riserva sorprese a chi voglia intendere certe allusioni: «io ho lodato la pazzia, ma non proprio da pazzo» (Erasmo da Rotterdam, Elogio della pazzia, a cura di Tommaso Fiore, Einaudi, 1964, pp. 5-6).

Contro i “retori del nostro tempo”.

E dunque… non meriterebbero questi pazzi da legare, che pur vogliono parere dei Taleti per sapienza, non meriterebbero di essere chiamati maestri di pazzia [morosofi]? (p. 15)

Morìa («pazzia») è figlia di Pluto, dio della ricchezza; a un suo gesto,

una volta come oggi, tutte le cose, sacre o profane, si confondono insieme, a suo arbitrio si fanno guerre, paci, imperi, consigli, tribunali, assemblee popolari, matrimoni, trattati, alleanze, leggi, arti, cose serie, cose buffe (auff! mi manca il fiato), in una parola tutte le faccende dei mortali, pubbliche e private… […]; chi invece ha il suo favore, può mandare a farsi impiccare fin anche il sommo Giove, con tutti i suoi fulmini… (p. 16)

Pazzia è simbolo di necessaria sociale ipocrisia.

Senza di me [Pazzia], insomma, nessuna società, nessun vincolo nella vita potrebbe esser gradevole o stabile. Nessuno vorrebbe sopportare un altro, né un popolo il suo re, né il padrone il servo, né la cameriera la padrona, né il precettore il suo alunno, né l’amico l’amico, né la moglie il marito, […] se a vicenda non s’ingannassero fra loro, non si adulassero, non chiudessero un occhio per prudenza, non si adescassero col miele di qualche follia. (p. 35)

E la vita umana che altro è se non una commedia? In questa gli attori escono in pubblico, celandosi chi sotto una maschera, chi sotto un’altra, e ognuno fa la sua parte, sino a che il direttore li fa uscir di scena. […] Tutta la vita non ha alcuna consistenza; ma tant’è, questa commedia non si può rappresentare altrimenti.
[…] Come non c’è stoltezza maggiore di una saggezza inopportuna, così non c’è maggior imprudenza di una prudenza distruttrice. […] Invece è da uomo veramente prudente, una volta che siamo mortali, non aspirare ad una saggezza superiore alla propria sorte. (pp. 46-47)

Insomma, la vita umana, nel suo insieme, non è che un gioco, il gioco della pazzia. (p. 43)

Contro la sapienza.

Oh! se i mortali si astenessero completamente da ogni relazione con la sapienza e vivessero sempre in mia compagnia! Non ci sarebbe alcuna vecchiaia affatto, ed essi nella loro felicità, godrebbero eterna giovinezza!
O non vedete codesti musoni, dediti agli studi filosofici o ad altre occupazioni serie e ardue, già fatti vecchi prima di esser giovani? E’ evidente: per le preoccupazioni, per continuo e violento travaglio dei pensieri, si esauriscono a poco a poco gli spiriti e il succo vitale. (p. 24)

Dunque, fra i mortali, ben lungi dalla felicità si trovano quelli che vanno in cerca della saggezza. Essi sono, si vede, doppiamente dissennati, ché, nati uomini, dimenticando la loro condizione di uomini e aspirando a vivere da dèi immortali, a mo’ dei giganti muovono guerra alla natura, e le scienze son le loro macchine da guerra. (p. 57)

E dopo aver parlato degli sciocchi, la Pazzia esorta:

Su via, ora paragoniamo qual sapiente vogliate con la sorte di uno di questi sciocchi! Immaginate di opporgli, modello di sapienza, un uomo che abbia mortificato tutta la fanciullezza e la giovinezza nell’apprendere mille scienze diverse, sciupando così la parte più gioconda della vita in veglie, affanni e sudori senza fine e neppure pel resto dei suoi anni abbia mai gustato un zinzin di piacere, vivendo sempre parco, povero, afflitto, malinconico, a se stesso ingiusto e duro, agli altri gravoso e in odio, consunto dal pallore, dalla macilenza, dalla debolezza, dalla cisposità [pieno di cispa], per abbandonar la vita anzi tempo, troppo presto sfinito dalla canizie, dalla vecchiaia…; per quanto… cosa può importare in che modo se ne vada all’altro mondo uno che non è stato mai vivo? Ecco il ritratto del sapiente! Che cosa magnifica! (pp. 60-61)

Per farla breve, volgiti a destra o a mancina, fra papi, re, magistrati, fra amici come fra nemici, fra grandi o piccoli, quando c’è danaro si può aver tutto e poiché il sapiente lo disprezza, solitamente viene fuggito a tutta possa. (p. 117)

Tuttavia la Pazzia conclude che

meno uno ne sa e più si compiace di se stesso e più la gente si maraviglia; e allora perché mai dovrebbe preferire la vera cultura, che anzitutto gli costerebbe molto, lo renderebbe più fastidioso e timido, e infine piacerebbe anche meno? (p. 71)

Per la Pazzia i più pazzi sono i grammatici, i poeti, i giureconsulti e i filosofi. I discorsi retorici dei filosofi che governano, per quanto ne dica Platone nella sua Repubblica, sono solo «scempiaggini con cui si può impressionare quel bestione grosso e potente, che è il popolo» (p. 42). Più pazzi di tutti i pazzi sono i teologi. Comincia, la Pazzia, a colpire, da qui fino alla fine del proprio “elogio”, la religione (cristiana), intesa questa stessa come “una forma di pazzia” (p. 131), a cominciare dai vescovi e i cardinali per finire ai papi, i quali sposano anche il bellum; neanche mancano

adulatori forniti di cultura che tale dissennatezza chiamano zelo, religione, eroismo, e han trovato modo di provare che, a stringere un ferro micidiale, cacciandolo nelle viscere del fratello, non si vien meno a quella carità infinita che, secondo il precetto di Cristo, il cristiano deve al cristiano. (p. 113)

Tra l’altro, la Pazzia rileva che nell’Antico come nel Nuovo Testamento si loda sempre l’ignoranza e il disuso della scienza, dal Genesi a Gesù. Non per niente Satana è detto «logico» da Dante (Inf. XXVII, 61-129), quando il Diavolo – dopo aver dato prova di subtilitas – esclama: «Tu non pensavi ch’io loico fossi».

Addio, dunque: applaudite, state sani, bevete, o rinomatissimi adepti della Pazzia. (p. 138)