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Il poeta, la guerra, Sofia

Enrico di Ofterdingen è l’opera di Novalis che al romanzo di formazione goethiano oppone il romanzo del sogno, della fiaba e della contemplazione. La vicenda e il viaggio, inoltre, si configurano come festa del canto, vero connubio di poesia e popolo, tema su cui, tra gli altri, il romanticismo costruirà il suo splendore e la sua fortuna.
È noto come Enrico sia poeta per natura1, ossia per predisposizione intima che si affermerà compiutamente dopo un cammino costituito, più che da azioni (propriamente nell’Enrico di Ofterdingen non accade quasi nulla), da narrazioni e visioni; la trama è solo un affastellarsi di incontri e racconti, inscritti in un viaggio di scoperta che porterà il giovane Enrico alla maturazione poetica ed all’amore. Sarà proprio Klingsohr, eletto a Maestro, nonché padre di Matilde, la ragazza di cui Enrico si innamora, a svelargli l’essenza della poesia.
Lungo il cammino, a dire il vero, gli elementi della poesia si erano già mostrati; il cuore palpita e l’immaginazione si accende quando ad Enrico vengono narrate le imprese eroiche dei crociati che presero il Santo Sepolcro. Egli si trova in un castello, il cui castellano è un vecchio guerriero che ha combattuto in Terrasanta ed adesso ama organizzare feste per riempire gli ‘ozi della pace’. Enrico è affascinato dai racconti di guerra, giunge addirittura a baciare il brando del castellano, utilizzato in quelle battaglie: «Enrico lo prese in mano, e si sentì colto da un eccitamento guerresco. Lo baciò con profonda venerazione»2.
Perdipiù, in seguito ad un canto intonato dai cavalieri in cui si inneggia al trionfo della cristianità, immagina il Santo Sepolcro con le fattezze di una pallida, giovane e nobile figura. L’eccitamento guerresco scemerà soltanto quando Enrico si metterà a passeggiare tra la natura, in aperta campagna. Con un taglio tanto prevedibile quanto necessario, Novalis fa udire ad Enrico un canto di donna, una canzone di un cuore lontano dalla patria. Il tema dell’oriente si fa strada nelle sembianze femminili di Zulima; ai roboanti inni dei cavalieri fa da contraltare la mesta canzone dell’orientale. Alla giuliva guerra religiosa dell’occidente si oppone la pacifica e triste atmosfera di Zulima; la guerra lascia il posto alla nostalgia. Ai cavalieri che spronavano alla guerra, Zulima risponde a distanza che tranquillamente «avrebbero potuto i Cristiani visitare il Santo Sepolcro, senza aver bisogno d’intraprendere una spaventosa, inutile guerra che tutto avvelena, diffonde infinita miseria, e per sempre ha separato l’Oriente dall’Europa»3. Col discorso di Zulima, in Enrico «l’animazione guerriera era del tutto svanita»4. Dunque parrebbe che per Novalis la guerra sia affare occidentale, segnatamente cristiano. E, come vedremo, sul tema della guerra religiosa Klingsohr avrà molto da dire.
Ad ogni modo, discutendo col maestro su cosa sia la poesia, Enrico dirà al padre dell’amata Matilde che «specialmente la guerra […] mi pare un effetto di poesia»5. Cosa può voler dire che la guerra sia un effetto di poesia?
Procedendo con ordine, la prima distinzione da fare è quella tra natura e poesia; perché è vero che Enrico è poeta per natura, ma Klingsohr precisa che la natura non è poeta. O meglio: non lo è in tutti i tempi. La natura pare avere due aspetti: uno è quello del sentimento, dell’emozione, della comprensione; l’altro mostra «la sorda cupidigia e l’apatia e l’ignavia ottusa»6. Quest’ultimo aspetto, nei tempi in cui si manifesta, conduce una lotta con la poesia; la cosa interessante è che la natura ha questo aspetto come ce l’ha l’uomo, probabilmente, potremmo dire, in quanto ente naturale. Dato che questa ‘qualità avversa’ della natura lotta contro la poesia e dato anche che una bella materia di poesia è questa lotta stessa, allora è per questo che Enrico (o l’uomo, in generale) può essere poeta per natura. L’uomo, dunque, può essere poeta per natura perché ha in sé questa lotta; dove quest’ultima manca, non v’è poesia; dove c’è, si spiega anche la poesia ‘indigena’.
Tuttavia, un conto è dire che la poesia sia lotta tra ciò che c’è di meramente naturale e ciò che invece è naturalmente ‘culturale’ (in senso molto lato), altra faccenda è sostenere ciò che abbiamo riportato prima, ossia che «la guerra pare un effetto di poesia». La lotta non è ancora la guerra. La spiegazione di come la lotta diventi guerra ci è data da Enrico stesso:

Gli uomini credono di doversi battere per un qualche meschino possesso, e non s’avvedono che è lo spirito romantico che li muove, ad annientare per suo medesimo mezzo le inutili scelleratezze. Essi in realtà portano le armi in favore della poesia, e ambedue gli eserciti seguono un unico, invisibile vessillo7.

La poesia sembra muovere alla guerra come l’Uno neoplatonico riconduce a sé tramite l’epistrophé. Il principio unico per cui si compiono le guerre sembrerebbe essere il dominio dello spirito romantico; come un antesignano dell’Astuzia della Ragione, lo spirito romantico conduce al macello migliaia di uomini per far trionfare quell’aspetto della natura dalle qualità non avverse alla poesia, come se ogni guerra fosse condotta dal cammino dello spirito per esportare poesia o, forzando la mano, civiltà e verità.
In questo contesto, dunque, possiamo riallacciarci al tema delle guerre di religione, perché Klingsohr così continua il ragionamento di Enrico:

La vera guerra è la guerra di religione; essa giunge addirittura allo sterminio e la follia degli uomini vi appare nel suo più compiuto aspetto. Parecchie guerre, specialmente quelle originate dall’odio nazionale, appartengono a questa categoria, ed esse sono autentici poemi8.

Dunque, se la vera guerra è la guerra di religione e se la guerra è un effetto di poesia, allora il vero effetto della poesia è la guerra di religione. La religione è l’autentico poema guerresco, capace di ricondurre tutto all’Uno, per mezzo del figliolo poeta9 e del santo spirito romantico.
Mi paiono calzanti, compiendo un salto contestuale giustificato forse solo dal lirismo politico sotteso al suo pacifismo, le ardite metafore degli estremi versi di Majakovskij, esempio concreto di poesia guerresca:

Spiegate in parata
le truppe delle mie pagine,
passo in rassegna
il fronte delle righe.
I versi stanno
con pesantezza di piombo
pronti alla morte
e alla gloria immortale.
[…]
Arma
fra tutte
prediletta,
pronta
a lanciarsi con un grido di guerra,
si è raggelata
la cavalleria delle arguzie,
levando le aguzze
lance delle rime.
E tutte queste truppe
armate sino ai denti,
che per vent’anni volarono
da una vittoria all’altra,
sino
all’ultimissimo foglietto
io le consegno a te,
proletariato del pianeta10.

Tornando a noi ed alla questione della guerra come effetto della poesia, poco sopra accennavo brevemente ad un paragone con l’Uno; ciò non è stato casuale. La poesia, col suo spingere gli uomini all’annientamento, all’ammazzarsi l’uno con l’altro, sembra assimilabile a ciò che secondo Manlio Sgalambro è l’opera dell’Intelletto. Nel suo La conoscenza del peggio, difatti, l’Intelletto, trattato nella Nota a chiusura del libro, è ciò che vuole ricondurre all’Uno. Esso si trova in ogni cosa, dall’uomo, ai batteri, alle rocce; esplicando, tuttavia, «la sua attività senza intelligenza»11. Se c’è, dunque, qualche finalismo, in questo Intelletto, verrebbe da dire che è paragonabile a quello del bello kantiano: una finalità senza scopo. Pure potremmo utilizzare delle categorie spinoziane per rendere comprensibile la nozione di Intelletto nella maniera intesa da Sgalambro: così come esiste una Natura Naturante ed una Natura Naturata, allo stesso modo, da un lato v’è l’Intelletto che penetra ogni cosa dell’universo (ove per cosa si intenda qualunque cosa, perciò anche l’uomo) e ciecamente la ordina e ne delinea i caratteri comuni, mentre sotto un altro aspetto v’è l’intelletto proprio di ciascuna cosa che la determina ad essere (ne determina quella che altrimenti si potrebbe definire essenza).
L’Intelletto dunque «fa di ogni molteplice un ‘uno’, come si fa di ogni erba un fascio. Una ‘unità’ che si potrebbe chiamare meccanica tiene unito, nel bene e nel male, questo inferno»12, cioè il cosmo; ed è proprio in questo meccanismo unificatore che è racchiuso il nocciolo perfino di ogni misera violenza e di ogni Delitto, perché in ciò vi è l’azione dell’Intelletto che attira a sé la molteplicità per ridurla ad Uno; come una sorta di istinto di morte che più che al mero inorganico tenda al meccanico:

il distruggersi a vicenda di due individui non nasce dall’egoismo di ciascuno dei due (di cui farnetica anche uno avveduto come Schopenhauer), ma al contrario della nefasta inclinazione all’‘unità’ (da questa modalità dell’intelletto), che pungola dentro e che li spinge appunto a ridursi a quell’Uno che per loro disgrazia dovrebbero diventare13.

La forza magnetica e meccanica dell’Uno pare agire nell’Intelletto cieco di Sgalambro e nello spirito romantico novalisiano. Il sacrificio di sangue che dovrà essere pagato per necessità sarà ricompensato dal risultato, dalla meta, giacché in Novalis regnerà la Sofia, in Sgalambro si realizzerà la «segreta aspirazione a non pensare»14. Persino colui che trafitto da una lancia ed incoronato di spine, pur sentendosene abbandonato sulla croce, infine si ricongiungerà al padre, realizzando così la sua stessa preghiera: «come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola» (Gv, 17, 21).
Qualsiasi cosa se ne dica, il messaggio evangelico di Pace sarà raggiunto ‘nell’altro mondo’, il mondo dei morti. In un mirabile scorcio, per lo più estetizzante e poco noto, Giovanni Pascoli mostra l’accoglienza in occidente, nell’occidente romano, dell’annuncio evangelico della pace. Dopo che l’angelo annunciatore non ha ottenuto risposta tra i templi e le vestali, porta il messaggio ad un gladiatore geta, ossia della Tracia; un gladiatore appena giunto a Roma ma già ferito a morte:

Vegliava, il Geta… Entrò l’angelo: “PACE!”
disse. E nell’infinita urbe de’ forti
sol quegli intese. E chiuse gli occhi in pace.

Sol esso udì; ma lo ridisse ai morti,
e i morti ai morti, e le tombe alle tombe
e non sapeano i sette colli assorti,

ciò che voi sapevate, o catacombe15.

La pace riguarda i morti. Solo essi possono conoscerne il mistero, perché non avvertiranno più la lotta della natura, ossia quello che secondo Novalis è l’oggetto della poesia. Se sia dato ai morti conoscere o sapere qualche cosa, ciò non è dato in sorte, a sua volta, saperlo ai vivi16. Eppure forse la pace, la ‘segreta aspirazione a non pensare’, per dirla con Sgalambro17, può darsi come frutto di sapienza. L’ultima fiaba della prima parte di Enrico di Ofterdingen si conclude con un canto della Fiaba. Il nome dell’amata Sophie, morta di tisi a quindici anni, lampeggia a conclusione della formazione del poeta, come se la sapienza correggesse la lotta tramutandola in pace. La natura, dunque, non avrebbe più motivo di lottare né con se stessa né con la poesia; Sophia, la notturna e sepolcrale Sofia, esaurisce la natura rendendola tutta poetica, e con ciò tramutandola. Pure la segreta aspirazione a non pensare può essere sviluppata solo a partire dal compimento del pensiero. Solo al perfezionarsi della sapienza si potrà, con naturalezza, a voce spiegata insieme alla fiaba, cantare:

Fondato è il regno dell’eternità,
in amore e in pace finisce la battaglia,
passato è il lungo sogno di dolore,
Sofia è per l’eterno sacerdotessa dei cuori18.

Note
1. «Enrico era per natura poeta. Molteplici vicende sembravano aver concorso alla sua formazione, quando ancora nulla aveva turbato la sua attività intima. Tutto ciò che vedeva e udiva pareva soltanto dissertare nuovi chiavistelli in lui e aprirgli nuove finestre» (Novalis, Enrico di Ofterdingen, in G. Bevilacqua (a cura di), I romantici tedeschi, Vol. I, Narrativa, Bur, Milano 2003, pag. 71).
2. Ivi, pag. 228.
3. Ivi, pag. 235.
4. Ivi, pag. 236.
5. Ivi, pag. 291.
6. Ivi, pag. 290.
7. Ivi, pag. 291.
8. Ibidem.
9. «Un poeta che fosse al tempo stesso un eroe, sarebbe davvero un messo divino», ivi, pag. 291-292.
10. V. Majakovskij, A piena voce, vv. 120-127 e 132-148, trad. di A. M. Ripellino.
11. M. Sgalambro, La conoscenza del peggio, Adelphi, Milano 2007, pag. 159.
12. Ivi, pag. 163.
13. Ibidem.
14. Ivi, pag. 171.
15. G. Pascoli, La buona novella, Parte II, L’occidente, IV, vv. 82-88 (da Poemi conviviali).
16. Il tema del ricordo che i morti serbano della vita è meravigliosamente sviluppato da Leopardi, in uno dei più divertenti e profondi dialoghi delle Operette morali. Il ricordo che i morti hanno della vita è uguale a ciò che i vivi possono pensare della morte, cioè solo cose ‘arcane e stupende’, essendo nella totale ignoranza su cosa di fatto poi essa sia (G. Leopardi, Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie):

Vivemmo: e qual di paurosa larva,
e di sudato sogno,
a lattante fanciullo erra nell’alma
confusa ricordanza:
tal memoria n’avanza
del viver nostro: ma da tema è lunge
il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
oggi è la vita al pensier nostro, e tale
qual de’ vivi al pensiero
l’ignota morte appar.

17. «Siamo costretti a pensare, sbalzati continuamente da un pensiero a un altro, in un perpetuo affanno. E sentiamo con pena l’impossibilità di fermarlo, quasi di porvi sosta. Anzi, la sosta diventa ancora pensiero, ancora il sentire dentro di sé questo rovello che non si acquieta e la pena che ci infligge e il desiderio finalmente di pace e la segreta aspirazione a non pensare…» (M. Sgalambro, La conoscenza del peggio, cit., pag. 171).
18. Novalis, Enrico di Ofterdingen, cit., pag. 328.